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Testi del Vedanta, dello Yoga e della tradizione Hindu.

Dal 2001 Visionaire.org è scritto, illustrato, pubblicato da Beatrice Polidori (Udai Nath)

Testi del Vedanta

Bhagavad Gita

Il Signore creò  il mondo, e volle proteggere la sua esistenza. In primo luogo fece i progenitori, guida delle genti (prajaa - Pati), a partire da Marichi, e  impartì loro la legge  (Dharma), caratterizzata dai precetti operativi  (pravRitti) descritti nei Veda. Poi creò Sanaka, Sanandana e altri, e impartì loro la legge della rinuncia all'azione (NIVRitti), dalla conoscenza e dal  distacco. Duplice è la Legge descritta nei Veda - una di azione e l'altra di rinuncia all'azione – con cui è retto il mondo. Questa duplice legge deve essere osservata da parte dei membri di tutte le classi, a cominciare dai Brahmana, per tutta la durata delle stagioni della vita, in quanto porta direttamente a ottenere la prosperità e la liberazione, il Sommo Bene.

Nel corso del tempo, a causa dell'egoismo di coloro che dovevano difendere legge, e la conseguente diminuzione della conoscenza discriminativa, l'ingiustizia divenne più potente e prevalse sulla legge. Volendo mantenere la stabilità del mondo, il Creatore primordiale, che tutto pervade, il Signore (Vishnu), chiamato Narayana, si incarnò e nacque da Devaki e da Vasudeva, come Krishna, al fine di ristabilire la legge divina dei Veda.  Solo se la Legge vedica è preservata, il suo spirito proteggerà la vita delle diverse classi di persone.

Ashtavakra Samhita

Tu non appartieni ai bramini, ai guerrieri né ad altra casta, tu non sei in alcuno stadio di vita, non sei nulla di ciò che i tuoi occhi possono vedere. Sei privo di attaccamento e di forma, il testimone di tutto - [dunque] sii beato, ora. Giusto e ingiusto, piacere e dolore appartengono soltanto alla mente e non ti riguardano. Tu non sei l'agente o il fruitore delle conseguenze [dell'agire]; tu sei sempre libero.

Tu sei l'unico testimone di tutto, completamente libero. La causa della sofferenza è nel ritenere il testimone qualcosa di diverso da questo. Finché sei stato ingannato dal nero serpente dell'opinione di te stesso, hai creduto stoltamente: "io sono colui che agisce"; ora dissetati col nettare dell'evidenza: "io non sono colui che agisce" e da subito sii felice. Brucia la foresta dell'illusione con il fuoco della conoscenza.

Mandukya Karika di Gaudapada

Mi inchino al Brahman che pervade l'universo con l'effusione della conoscenza, che pervade ciò che è mobile e ciò che è immobile, Colui che osserva tutto quello che può essere conosciuto nel mondo grossolano [durante lo stato di veglia], Quello per cui si sperimenta tutto ciò che nasce dal desiderio ed è illuminato dall'intelletto [durante lo stato di sogno], e che riposa nella Sua beatitudine e fa che tutti noi vediamo attraverso la Sua Maya, quello che, nei termini di Maya, è il Quarto [Turiya] e il supremo, immortale e non nato.

Turiya, il Sé dell'universo - che osserva i frutti della virtù e del vizio nel mondo grossolano, che conosce gli oggetti sottili creati dalla Sua intelligenza e illuminati dalla Sua luce e che riassorbe tutto questo gradualmente in Sé, e che abbandonata ogni differenziazione diviene privo di attributi – che possa Egli accordarci la Sua protezione.

श्रुति Śrūti

Ishavasya Upanishad

Il volto della Verità è nascosto da una maschera d’oro; rimuovilo, oh Conoscitore, perché trionfi la verità, perché sia veduto. O Conoscitore, o Veggente, o Ordinatore, Sole Illuminante, o Padre delle creature, apri i tuoi raggi divini, trattieni il tuo ardore, affinché io possa conoscere il tuo volto benedetto. L'essere luminoso che abita in te, quello io sono.

Brhadaranyaka Upanishad

Om! L'aurora è il capo del cavallo sacrificale; il sole è il suo occhio, il vento il suo respiro, il fuoco onnipresente la sua bocca, l'anno il suo corpo. Il cielo è il dorso del cavallo sacrificale; l'atmosfera è la sua pancia, la terra il suo inguine; i punti cardinali sono i suoi fianchi, i punti intermedi le sue coste, le stagioni le sue membra, i mesi e le quindicine le sue giunture, i giorni e le notti le sue gambe, le costellazioni le sue ossa, le nubi le sue carni. La sabbia è il cibo che egli digerisce; i fiumi i suoi intestini, i monti il suo fegato e i suoi polmoni, le erbe e le piante la sua criniera; il sole che si leva è il davanti del suo corpo, dietro il sole che tramonta. Il lampo è il suo ringhio, il tuono lo scuotimento del suo corpo, la pioggia la sua orina, la voce della parola il suo nitrito.
Il giorno, che posa sull'oceano orientale, fu la coppa posta dinanzi al cavallo. La notte, che si trova sull'oceano occidentale, fu la coppa posta dietro al cavallo. Egli fu il Destriero che portò gli Dei, lo Stallone che portò i Gandharva, il Corsiero che portò i Demoni, e infine portò gli Uomini, come fa il Cavallo. Egli è di casa nell'oceano, dove si trova la sua stalla.

Mandukya Upanishad

 

Tutto è contenuto nella sillaba Om.

Il passato, il presente e il futuro non sono altro che la sillaba Om.

Quello che trascende la triade temporale, a sua volta, è l’Om.

Tutto è Brahman.

Il sé è Brahman.

Ecco il Signore supremo, l’onnisciente, il regolatore interno;

esso è il principio, l’origine e la fine di tutti gli esseri.

 

Sri Adi Shankara

Shankaracharya

Vivekacudamani

“Il gran gioiello della discriminazione”  
Istruzione sul discernimento spirituale

1. Rendo onore al sadguru Govinda la cui natura è suprema beatitudine, il quale si rivela mediante l’insegnamento vedantico che è di là dal linguaggio e dalla percezione mentale.
2. Per tutte le creature viventi non è agevole avere una nascita umana, in particolare ottenere un temperamento maschile, più difficile è perseguire il sentiero della devozione vedica, più difficile ancora è acquisire la perfetta conoscenza delle Sacre scritture. Altresì è raro discriminare tra il Sé e il non-Sé e realizzare l’identità del Sé con Brahman. Questo tipo di liberazione perfetta è il risultato di meriti accumulato nel corso di innumerevoli nascite.

Soundarya Lahari, L'Onda della Bellezza

"L'Assoluto è senza forma, ma l'energia è femminile. Quando l'energia prende forma, è chiamata Madre. Madre è la potenza in movimento, che solleva in onde le acque calme dell'Assoluto." Swami Vivekananda

"Non c'è Shiva senza Shakti o Shakti senza Shiva. I due, per loro stessa natura, sono uno. Ciascuno di essi è coscienza e beatitudine." Arthur Avalon

"Shakti è l'energia primordiale latente,  indifferenziata e auto-cosciente, che tutto pervade, che si manifesta per creare l'universo dopo il diluvio o la grande dissoluzione (Mahapralaya). Questa Shakti non è diversa dalla coscienza (Cit), il loro rapporto è di inseparabile unità (Avinabhava Sambandha) come tra il fuoco e il calore, un soggetto e le sue caratteristiche, la parola e significato ecc. In altre parole, uno non esiste senza l'altra." 

Advaita Sadhana

Antologia degli insegnamenti di
Sri Chandrasekharendra Saraswati Swamigal.
Commento del Vivekacudamani di Shankara. [PDF]

Con grande compassione il nostro Acharya Shankara Bhagavatpada ha tracciato il Saadhanaa-kramaM (il metodo della Sadhana) per raggiungere lo scopo dell’Advaita. Tutto ciò che ha fatto è in accordo con la Sruti (i Veda). Il corpo dei Veda ha una testa, le Upanisad. Esse sono chiamate ‘shruti-shira’, che significa ‘la testa della Sruti’. L’alto edificio della Sadhana costruito per noi dall’Acharya è fondato sulle Upanisad.
Egli ha tracciato un programma chiamato ‘Saadhana-chatushhTayaM’ (la Sadhana in quattro fasi). Nel suo monumentale commento al Brahma Sutra fin dall’inizio dice: 'nitya-anitya-vastu-vivekaH' si deve discriminare tra ciò che è reale e cioè che non è reale e nomina la quattro fasi del cammino.
Come il Sutra-Bashya è il culmine dei commenti scritturali, il Viveva-Chudamani è la massima espressione delle opere dette prakarana. In questo testo è data una perfetta definizione delle quattro fasi del Saadhana-chatushhTayaM.

La filosofia di Shankara

La filosofia di Shankara

Questo articolo esamina l'Advaita Vedanta classico di Shankaracharya e alcune questioni basilari di epistemologia e soteriologia. La presentazione rimarrà fedele a ciò che Shankara ha effettivamente detto ed eviterà interpretazioni speculative del suo pensiero, come ad esempio le forme dell'Advaita Vedanta che possono significativamente essere adattate in modo da soddisfare le esigenze degli occidentali moderni. Per la maggior parte ci si riferisce ai commenti di Shankara sul Brahma Sutra e Brhadaranyaka Upanishad, forse i suoi lavori più importanti, con alcuni riferimenti anche ai suoi altri scritti. 

Ascolto, riflessione e meditazione nella pratica dell'Advaita Vedanta

L'analisi mentale dell'Upadesha (insegnamento) attraverso la riflessione costante è l'esercizio detto Manana. Successivamente, quando non esiste più necessità e scopo per ulteriore analisi e discussione, si procede con NidhidhyAsana, che è lo stato in cui la mente è concentrata esclusivamente nell'identificazione con l'atman- tattva, su cui si è giunti a una perfetta chiarezza, e la mente non è scossa da alcun movimento.

La Mente e la funzione dei Mahavakya.

La mente, che è chiamata 'organo interno' (antaHkaraNam), è indicata con quattro nomi in base alle rispettive funzioni: manas, buddhi, chittam e ahamkAra. La funzione del pensiero è conosciuta come manas, che designa l'attività della mente ordinaria, come comportamento, esperienza di piacere, repulsione, reazione e relazione. Quando viene presa una decisione, appellandosi al senso etico, alla verità, al discernimento, è detta buddhi o intelletto. La funzione di memorizzare le esperienze e le informazioni, e di compiere operazioni formali, è chiamata chittam. Il senso dell'io è ahamkAra. 

Devi Mahatmya

 

Durante il Navaratri, in India è tradizione leggere il Devi Mahatmya, suddiviso per i nove giorni (notti) dedicati alla Madre divina. La lettura di questo testo è una pratica devozionale riconosciuta e ricca di insight significativi. Il testo è stato tradotto e curato dai miei studenti durante il Solstizio d'estate 2020, anno apocalittico e insieme straordinario, e quindi da me revisionato commentato durante il Navaratri, per condividere la lettura del testo, a protezione e conforto dei devoti della Madre e di tutti. Lo dedichiamo al Navaratri d'autunno per tutti coloro che cercheranno rifugio nella Sapienza in tempi di angoscia. Adesh Adesh. Jay Ma!

 

Introduzione:

I. ORIGINE E TRADIZIONE DEL CULTO DELLA MADRE DIVINA IN INDIA.

II. IL DEVI MAHATMYA.

Giorno 1: Capitolo I (Madhu kaitabha samhaaram)

Giorno 2: Capitoli II, III, IV (Mahishhasura samhaara)

Giorno 3: Capitoli V, VI (Dhuumralochana vadha)

Giorno 4: Capitolo VII (Chanda Munda vadha)

Giorno 5: Capitolo VIII (Rakta biija samhaara)

Giorno 6: Capitoli IX, X (Shumbha Nishumbha vadha)

Giorno 7: Capitolo XI (Lode di Narayani)

Giorno 8: Capitolo XII (Phalastuti)

Giorno 9: Capitolo XIII (Benedizione di Suratha e Samadhi)


Testo e commento del Devi Mahatmya in PDF

di Pio Filippani Ronconi

Nel trattare la dimensione metafisica del Fuoco sacro presso le genti arie, ci siamo imposti di limitarci all’àmbito storicamente più antico e, perciò, a nostro avviso, più ricco di significati primordiali, cioè il periodo vedico, il cui retaggio ci è stato miracolosamente conservato dalla remota protostoria fino al giorno d’oggi, sia per la parte dottrinale, che per quella liturgica, ma soprattutto – grazie alla peculiare vocazione dell’ambiente indiano – per quanto riguarda l’interiorizzazione del rito e del mito, la realizzazione dell’elemento-agní nella coscienza visionaria del sacerdote. E penso che ricorrere all’ausilio della tradizione indiana e di quella – importantissima – iranica per recuperare le interiori fattezze del Fuoco sacro, sia particolarmente utile ai fini della ricostruzione vivente di quel Fuoco “occidentale” che tentiamo di ritrovare nella nostra Roma, onde rievocare la cosiddetta Pax Deorum passata all’invisibilità dai tempi di Graziano e Teodosio, quando la sacrilega volontà dell’Imperatore, convertita ai dèmoni peregrini, estinse la casta fiamma di Vesta che legava la sfera del tempo terreno storico e fattuale col il supramondo delle intenzioni archetipe, da cui Roma traeva ispirazione e vita.
Trattare del Fuoco vedico implica una cognizione sia pure sommaria del presumibile orientamento interiore, dello spirito come dell’anima, degli Arî indiani, che è lontanissimo dalla percezione attuale del mondo rappreso nella dimensione spazio-temporale come realtà a priori, a cui corrisponde – nell’interiorità del soggetto che se lo rappresenta – un pensiero astratto, praticamente morto, ed una coscienza logico-discorsiva; livelli, questi, di coscienza che nell’Occidente si sono sempre di più affermati, sin dal tempo della “morte degli Dei” di cui parla Plutarco da Cheronea, e sui quali si è strutturata tutta la scienza oggettiva e, quindi, l’organizzazione politica, economica e sociale quale si è andata affermando dal Rinascimento in poi. Indipendentemente dagli strati culturali, razziali, castali e genericamente religiosi, l’India conserva, con una grandissima varietà di applicazioni, una scienza interiore nascente da un’antichissima Sapienza continuamente rinnovellata dall’esperienza di infaticabili asceti, qual è – probabilmente negli ultimi quattro millennî – quell’insieme di discipline che conosciamo come Yoga.
Secondo queste discipline e non soltanto queste, l’uomo è assiato su quattro stati di coscienza: veglia, sogno, sonno profondo e catalessi (jagrâtâ, svapna, susupti, turîya), ad ognuno dei quali sperimenta se stesso, il mondo e la realtà del pensare secondo diverse prospettive. Allo stato di catalessi, il “quarto”, si sperimenta l’identità suprema di âtman e brahman, cioè di “se stesso” e “spirito universale”, in una condizione di vuoto (shûnya) assoluto, di stéresis: questa identità è materiata di volontà pura che si attua come calore primordiale, tapas. Allo stato di sonno profondo, il Verbo (vâc, shabda), si attua come un “io sono” cosmico rifrangendosi nelle 16 vocali creatrici, potenze di luci e di suono delle quali è sostanziato il Veda. Allo stato di sogno si attua la prima dicotomia fra parola-significato e oggetto: a questo livello, rispetto al quale sognamo, quando invece stimiamo di essere svegli, si attua nella parola-pensiero, il mantra, l’insieme delle potenze di vita, prâna, che reggono la compagine vivente dell’uomo, quella che, allo stato di veglia, si afferma come mondo fisico, sia soggettivo di corpo fisico, che oggettivo, di mondo materiale ad esso opposto. Ad ognuna di queste quattro condizioni corrisponde un livello diverso di coscienza, che dalla percezione di se stesso e del mondo nella specie fisico-materiale eminentemente separativa (“io-altro”) allo stato di veglia, perviene – nel “quarto stato” o di catalessi – alla suprema identità di io e universo, identità che negli altri stati di coscienza, specialmente in quello di veglia, è latente, immanente, altrimenti non potrebbe darsi alcuna forma di conoscenza, nemmeno quella grossolanamente materiale. Questo pensare cosmico, questa “gnosi”, prajñâ, che attraversa come una “aurea colonna”, hataka-stambha, le varie condizioni di coscienza, è intuita nei Veda, specialmente nel Rg-veda e nel Yajur-veda, come il Fuoco sacrificale che unisce il mondo degli uomini e quello degli Dei. A questo punto devo precisare un altro fatto molto importante, addirittura fondamentale per la comprensione anche del rito pagano. Gli Dei non sono l’“a priori” del mondo creato e, quindi, del sacrificio. E’ la volontà cosciente dell' uomo che, attraverso il sacrificio, con la potenza del Verbo, il mantra (etimologicamente “pensamento”) da lui rettamente articolato, evoca e in un certo modo “crea” gli Dei. Ciò perché, prima che il tempo fluisse e il genere umano venisse manifestato, tutti i mondi, tutti gli esseri e le loro virtualità erano comprese nell’Uomo Universale, Prajâpati, dal cui auto-sacrificio venne ad essere l’Universo, ma che tuttora è presente ancorché latente nel cuore di ogni uomo, come purusa, individualità spirituale. Questo potere, questa volontà cosciente che suscita gli Dei, è dai Veda identificato a kavi-krátu, “il potere del vate, del veggente”, e jâtá-vedas, “colui che conosce le creature”, manifestazioni di Agní, il Fuoco sacro, che adesso descriveremo sommariamente.
Per l’Indiano vedico il fuoco sacrificale è, quindi, la “realtà presenziale” dell’uomo, quella per cui egli s’incarna nel mondo dello spazio e del tempo, senza smarrire però l’interiore dimensione spirituale. Nella struttura fisica dell’uomo, Agní è presente come tapas, il “calore” (cfr. latino tepeo, “sono caldo”), il calore apparentemente animale, che è, invece, manifestazione della “volontà di essere”, sia istintivamente come vivente, jîva, che spiritualmente come meditante, manîsina, secondo una volontà che “dal futuro si protende verso il presente” con quel movimento sintropico, “anti-naturale”, che permette alla vita di affermarsi nel mondo della parvenza continuamente morente, dominato dalla decadenza e corruzione biologica.
In un’opera purtroppo male conosciuta (I Veda, armonia, meditazione e realizzazione, Ubaldini ed., Roma 1976) Jeanine Miller identifica in Agní il principio immortale nell’uomo, mediatore tra terra e cielo (p. 183), ricordando come questo “potere insito e attivo negli Dei e potenziale negli uomini… innalza il mortale alla suprema immortalità” (RV I, 31, 7 amrtatve uttame martam). E ancora: “nato nel più alto dei cieli” (RV VII, 5, 7), mediatore tra il Cielo e la Terra, l’“ospite degli uomini” (athitim janânâm)… “che dimora in abitazioni terrene e nella terza sfera celeste”… “Egli che conosce la via degli Dei” (RV I, 72, 7) è “colui che conduce a quella dimora triplicemente celata, la misteriosa sede ove regna il Non-nato” (RV I, 164, 6)… custode dell’ambrosia (RV VI, 7, 7), dell’ámrta, conoscitore d’ogni sapienza” (vishvâni kâvyâni vidvân). Nel RV I, 31, 7 è riferito che Agní innalza l’immortalità potenziale celata nella materia e nell’uomo come luce divina alla grandezza della vera immortalità che regna pienamente nell’empireo supremo (amrtatve uttame). Mediante il tapas, che viene interiormente acceso, l’uomo procede verso la purificazione e, di là, verso l’estasi intuitiva. Gli uomini realizzano se stessi passando attraverso la fiamma di Agní che devono accendere nella triplice dimora (tri sadhaste): questa fiamma è la luce del sole, la “vasta luce” (uru jyotih), che gli rsi scoprirono mediante la meditazione (dîdhyânâh, RV VII, 90, 4): la percezione che ha come occhio il sole e consegue l’estasi intuitiva e l’omniscienza. Questa estasi irrobustita dall’ambrosia, o il soma, eleva la creatura umana allo stato divino.
Come appare evidente, il fuoco è concepito nei Veda come il tramite che unisce il mondo degli uomini a quello degli Dei, poiché egli trasporta in cielo l’oblazione (homa) offerta dagli uomini nell’atto sacrificale (karman, yajña), dal mondo visibile a quello invisibile. Ma questo atto può essere realmente compiuto da un sacrificatore qualificato, che abbia cioè animato il triplice potere meditativo, cioè: 1) la capacità di sperimentare interiormente (bhâvanâ) il mantra, cioè la risultante dei suoni contenuti nel verso vedico, di là dal significato empirico delle singole parole; 2) la capacità di concentrarsi sulla dimensione-luce del pensiero (il dhyâna, dalla radice dhî, vedere, meditare), sì da conseguire naturalmente l’estasi visionaria; 3) il pensare, matis, colto nella sua essenza, che nasce dal cuore come luce (hrdâ matim jyotir anu prajânan, III, 26, 8) e si manifesta come “canto splendente”, arka. In tale modo matis diventa manîsâ, l’“intuizione continua” la cui matrice mistica è la Verità (rtasya pade), da cui derivano tutti gli altri poteri che i meditanti (naro dhiyamdhâh) ritrovano avendoli modellati nel loro cuore (hrdâ yat tastan mantrân ashamsan, I, 67, 2).
Da queste brevi note appare evidente come la interpretazione material-naturalistica cara alla scienza delle religioni sia totalmente contraddetta dal contenuto oggettivo dei canti vedici, che, pur mantenendo la identificazione fisica del fenomeno-fuoco, lo considerano simbolo vivente di un’esperienza spirituale, alla quale si accede mediante un’illuminazione interiore, una specie di Yoga proto-indiano orientato secondo una direzione uranica e luminosa. In questa prospettiva, gli Dei sono contemporaneamente i fenomeni esteriori della Natura universa e gli impulsi spirituali interiori, che però si attuano secondo una conversione, una metánoia continua, che riconduce il fenomeno fisico al suo archetipo celeste. Nella prassi del sacrificio vedico vige l’ammonimento: “na ádevo devam arcayét”, “non chi non sia un dio veneri un dio!”, una allusione chiara al fatto che il sacrificante debba essersi assimilato, mediante l’estasi illuminativa, alla figura divina che intende evocare per proiettare secondo lo opus sacrificale (épas) che intenda compiere. Mancando lo spazio, il tempo e la ragione per cui dovremmo attardarci a studiare e descrivere i riti – quasi tutti – che hanno Agní, il Fuoco, come figura centrale, limitiamoci a citarne le principali funzioni e fattezze.
L’aspirazione costante degli Arî vedici di ricollegarsi al mondo celeste della Verità, Satyá, e dell’Ordine cosmico, Rtá, è esaudita mediante il sacrificio, yajñá, fondato sul culto del fuoco (agní, cfr. latino ignis), al quale viene libata l’offerta, lo homa. Al Fuoco, che col suo moto dal basso all’alto congiunge il mondo terreno a quello degli Dei, sono dedicati circa 200 inni vedici, nei quali, fra l’altro, viene simbolicamente descritto: la schiena unta di burro (ghrta, “l’Avvampante”), chioma di fiamma, barba scura, mandibola tagliente mediante la quale divora l’offerta, non per sé ma per gli Dei. Fra gli scarsi miti che lo caratterizzano, ve ne sono alcuni, relativi alla sua triplice nascita, che saranno oggetto di speculazioni mistiche e metafisiche: “dal Cielo una volta è nato come Agní (letteralmente “colui che promuove”, dalla radice ag, lat. agere); fra di noi una seconda volta come Jâtá-vedas (“Colui che conosce le cose nate”); una terza volta “fra le acque” (come folgore fra le nubi); lui, inestinguibile, risveglia attentamente il sacerdote, accendendolo” (RV X, 45, 1). Oltre alla sua triplice nascita, questa volta come Sole (Sûrya), folgore e fuoco terrestre, nato dal soffregamento delle due asticciole (araní), per cui è chiamato “figlio della violenza/forza” (sáhasah sunúh), Agní riveste funzioni pratiche e, allo stesso tempo, caratteri mistici rilevanti. Nel primo caso è detto “Signore di Casa” (grhá-pati), “ospite” (átithi) per eccellenza, “sacerdote domestico” (puró-hita), “invocatore” (hótar), “officiante” (adhvar-yú), termini questi che si riferiscono all’officio esercitato nella triplice oblazione sacrificale: 1) al fuoco domestico (gârha-patya) acceso in un focolare rotondo; 2) indi al “fuoco oblatorio” (âhavaniya) acceso a est in un focolare quadrato; 3) il “fuoco destro” o “meridionale” (dâksina) acceso a sud su un focolare a mezzaluna per scongiurare i cattivi influssi. Ma molto più importanti sono le sue funzioni come entità mistica assunta sub specie interioritatis. In quel caso abbiamo la figura, già allusa, del kaví-krátu, “la forza intelligente (kratu, cfr gr. krátos) del vate”, cioè la volontà illuminata dell’asceta che si esprime come tapas, spiritualizzazione del calore naturale del vivente. Il fuoco è anche concepito come il Figlio di Sette Madri, le quali sono i sette principî sui quali si fonda l’esistenza dell’uomo: anna, il cibo, cioè corpo fisico, prâna, il respiro, cioè l’energia vitale, manas, la mente, vijñâna, la coscienza discriminante, indi i tre principî spirituali che sono sat, cit, ânanda, cioè: essere, coscienza e beatitudine, la pienezza interiore alla quale corrisponde obiettivamente l’esperienza del trimundio bhûr-bhuvah-svar (terra, atmosfera, cielo), trasceso dai quattro principî cosmici: mahas, la vastità, jana, archetipo umano o la creatività, brhat, luce-parola vibrante, tapas, volontà cosciente. Come tale, Agní è celebrato nel Rg-veda (V, 3) come “Deva Supremo” e identificato successivamente ai due Dei della regalità, Mitrá e Váruna, al signore degli Dei Indra, indi al protettore della famiglia ârya, Aryamán, dato che in essi si riassumono tutte le potenzialità delle tre caste divine e umane, quella dei sovrani, quella dei guerrieri e legislatori e quella dei produttori di ricchezza, salute e vita.
Da quanto esposto risulta evidente come il Fuoco dalle molteplici valenze costituisca la “spina dorsale” dell’esperienza religiosa vedica, sia per quanto attiene al suo aspetto liturgico – ché, senza il fuoco, il rito sarebbe impossibile e il collegamento con la sfera celeste negato – e sia per quanto riguarda l’esperienza interiore del sacrificante che, attraverso la interiorizzazione del rito tende a conseguire quell’“estasi attiva” che i Misteri del nostro Mediterraneo qualificavano come epopteia, “visione ciclica del Reale”. Avuta questa visione – dicono espressamente i testi – il sacrificante già iniziato con l’investitura del cordone sacro, lo yajñôpavîta (corrispondente all’avyañjana, o kosti, iranico), sperimenta l’immortalità, lo ámrta, essendo stato introdotto, anima e corpo, nel mondo degli archetipi, di cui “Tutti-gli-Dei”, i Vishvedevâh, sono il simbolo attuale e vivente.
Millenni più tardi, oscuratasi la trasparente coscienza già propria agli Arî antichi, la Via verso il Cielo già indicata dai Trentatré Dei vedici resterà, bensì, retaggio degli Uomini, che ancora potranno percorrerla giovandosi di altri supporti, come lo Yoga, i Tantra e le Samhitâ, segnacoli di libertà nei tempi oscuri, almeno in India.
Epperò, “il ritorno del Fuoco Sacro in Occidente”, che a noi qui sta a cuore, potrà essere attuato, non solo quando le antiche tradizioni ancora viventi come quella vedica saranno ben conosciute, ma quando torneranno ad esserci uomini capaci di calcare la Via iniziatica che, secondo anche ciò che esplicitamente dicono i Veda, è fondata sul raccoglimento interiore, la concentrazione, la meditazione e, in genere, la smobilitazione degli psichismi, delle ossessioni mentali e della meccanizzazione della conoscenza. Ricordarsi occorre che la “tradizione” non patisce trascrizioni canoniche e dogmatizzazioni, ma richiede l’esperienza vivente, sempre rinfrescata, di chi voglia ritrovarla. In tale modo il Sacro tornerà ad essere la dimensione intelligibile del Reale, e la vita cesserà di essere una funzione animale, per tramutarsi in un arto di quella cosapevolezza, la samvid dell’antica Scienza spirituale degli Indi, che è il nocciolo della nostra presenza nel mondo: l’“Io- sono”.

La Tradizione degli Yogi

GORAKHNATH E LA TRADIZIONE NATH

 

Adya (il principio maschile primordiale) e Adyā (il principio femminile primordiale) erano i due antichi dei che diedero inizio alla creazione. Successivamente nacquero quattro Siddha, dopo di loro nacque una ragazza, il cui nome era Gaurī. Per ordine di Adya, Śiva la sposò e discese sulla Terra. I nomi di quei quattro Siddha erano Mīnnāth (Matsyendranath), Gorakṣnath, Hāḍiphā (Jalendharnath) e Kānphā. Dal momento in cui furono creati, restarono assorti dalla pratica dello yoga e si sostenevano solo di aria. Goraksh Nath era al servizio di Mīn-nāth e Kanphanath era di Hāḍipā. 

dal Navanath Katha

Goraksha Sataka

La Centuria dei Versi di Gorakhnath

Om! Incomincia la centuria di Goraksha sull'Hata Yoga!
1. Mi inchino al venerabile Guru Matsyendranath, supremo bene, incarnazione della gioia; la cui semplice prossimità trasforma il corpo in pura coscienza e beatitudine.
2. Colui che, in virtù della paatica dell'adhdrbandha e delle altre tecniche posturali, illuminato dalla luce della coscienza, è lodato come Yogi e quale essenza e misura del tempo, degli yuga e dei kalpa, Colui in cui il Signore, oceano di conoscenza e beatitudine, ha preso forma, Colui che è superiore a tutti gli attributi qualitativi, manifesti e immanifesti, questi, Sri Minanath, io saluto devotamente
3. Avendo salutato con devozione il proprio Guru, Gorakhnath descrive la suprema conoscenza, ricercata dagli yogi, che conduce al Bene supremo.
4. Per il bene degli Yogi, Goraksa espone la Centuria di versi la cui conoscenza è il percorso sicuro verso lo stato supremo.
5. Questa è la scala che porta alla liberazione, per cui la mente è distolta dalle gioie dei sensi e si rivolge allo spirito, e con cui si sfugge la morte.

 

SIṢYĀ DARSAN

OṂ. Dall'eterno, l'Om emerge. Dall'Om, lo spazio [ākāś] emerge. Dallo spazio, l'aria emerge. Dall'aria, il fuoco emerge. Dal fuoco, l'acqua emerge. Dall'acqua, la terra emerge. La forma della terra è la bellezza della Dea. La forma dell'acqua è l'aspetto di Brahma. La forma del fuoco è la maya di Vishnu. La forma dell'aria è il corpo di Dio. La forma dello spazio è l'ombra del Suono [Nad] La forma del Suono emerge dall'eterno.

ABHAI MĀĀTRĀ JOG

OM. Il lignaggio dei Perfetti, la via della saggezza, la vera terra, la postura naturale e il respiro, la medicina filosofale del respiro yogico, la grotta dell'autocontrollo, l'astinenza come perizoma, il decoro come cintura di castità, l'unità trascendente come scialle di meditazione, l'unione, l'Uddhiana Bandh, il vero mudra, la virtù come abito, il perdono come cappello, l'ardore come supporto, l'introspezione come sacca delle elemosine, la pazienza come bastone, la discriminazione come spada, la pratica ascetica come ruota, il chakra radice come ciotola per l'acqua, la mente come acqua, l'elisir come cibo, la compassione, la meditazione del segreto, il discernimento come libro, la lingua come alchimia...

 

Adesh Adesh

Quando due Yogi Nath si incontrano, usano la parla आदेश (Ādeśa)per rivolgersi l'un l'altro il saluto. Nel dizionario Sanscrito o Hindi troveremo che la parola ādeś si traduce come ordine, legge, comando o istruzione, ma i Nath associano a essa un significato molto più ampio.

La parola ādeśa è composta di due parti: आदः (ādaḥ), e ईश (īśa), dunque ādaḥ + īśa = Ādeśa. आदः (ādaḥ) significa ricevere o essere legati a, mentre ईश (īśa) significa signore, padrone, ed è anche uno dei nomi di Shiva; inoltre esprime anche eccellenza, abilità, potere. I Nath ritengono che fu Shiva stesso il fondatore del loro ordine, con il nome di आदिनाथ (Ādi Nātha), "Il Primo Nath", "Il Maestro Primordiale", che è unanimemente accettato dagli Yogi come Adi Guru (Primo Guru) e la Divinità sovrana del Nath Sampradaya. E' detto anche Yogeshvara (il Signore dello Yoga) l'ideale ascetico stesso, signore di austerità e penitenza, Signore degli spiriti e delle anime. Nel senso più ampio, Adi Nath si può tradurre come "il Signore Primordiale", nel suo ruolo di Signore di tutto il creato.

GORAKSHA VACANA SAMGRAHA.

Le istruzioni di Gorakhnath. 

1. Alcune persone desiderano la non dualità, altri desiderano la dualità. Ma non troveranno la Realtà, che è sempre e ovunque la stessa, diversa dalla dualità e dalla non dualità.
2. Se il Dio (Shiva) a cui tutto va è immutabile, pieno, indiviso, allora oh! La maya, la grande illusione, le false nozioni di dualità e non dualità.
3. Si dice che il supremo Brahman sia libero dall'esistenza e dalla non esistenza, libero da distruzione e generazione, al di là di ogni concezione.
4. Coloro che conoscono la Realtà lo conoscono come infinito spazio, vera conoscenza e beatitudine, ignoto al ragionamento e all'esempio, al di là della mente, dell'intelletto e delle altre funzioni.
5. Shakti è inerente a Shiva, Shiva è inerente a Shakti. Si deve riconoscere che non c'è differenza tra essi, come tra la Luna e la sua luce.
6. Quindi Shiva senza Shakti non potrebbe fare nulla. Ma dacché è unito al suo potere (shakti), è causa di tutte le forme sensibili.
7. Dotato di infinita Shakti, Shiva perpetua il manifestarsi di tutte le forme, eppure rimane uno solo, senza secondo, nella sua propria forma.

Adi Nath, Matsyendra Nath e Goraksh Nath. L'origine della tradizione Nath.

Da tempo l'India è riconosciuta come un importante centro della vita spirituale, che ha esercitato grande influenza sullo sviluppo di tutta la civiltà umana. La storia del paese è stata sempre segnata dalle storie di diversi grandi santi, Siddha e MahaYogi, che appaiono di volta in volta a guidare l'umanità verso ideali più alti, grazie all'esempio delle loro vite illustri.

Alcuni aspetti degli insegnamenti dei Nath

La posizione metafisica dei Nath non è monista né dualista. E' trascendente nel più vero senso della parola. Essi parlano dell'Assoluto (Nath), al di là delle opposizioni implicite nei concetti di Saguna e Nirguna, o di Sakara e Nirakara. Perciò, per essi il fine supremo della vita è realizzare se stessi come Nath e restare eternamente radicati al di là del mondo delle relazioni. La via per conquistare tale realizzazione è detta essere lo yoga, su cui investono molta energia. Sostengono che la Perfezione non si posa raggiungere con altri mezzi, se non con il sostegno della disciplina dello yoga.

I Siddha e la Via del Rasa

Un Siddha è qualcuno che si dice abbia raggiunto poteri sovrumani (Siddhi) o un Jivanmukthi, un liberato in vita. Il termine potrebbe anche essere tradotto come il raggiungimento della perfezione o dell'immortalità. Tale Siddha dotato di un corpo divino (divyadeha) è Shiva stesso (Maheshvara Siddha). È il perfetto, che ha superato le barriere del tempo, dello spazio e dei limiti umani. Un Siddha nella sua forma idealizzata è liberato da tutti i desideri (anyābhilāṣitā-śūnyam), colui che ha raggiunto un'identità impeccabile con la Realtà suprema.

Gorakh Bani

 

Il Gorakh Bani è un poema sapienziale di epoca medievale attribuito a Gorakhnath, composto di 275 strofe, più una serie di composizioni aggiuntive, dette Pada.
E’ un testo dei più misteriosi e affascinanti. E’ il Sabad, la parola spontanea dell’illuminato, lontana dai canoni scolastici vedantini e dello yoga, invece enigmatica e fitta di allegorie ermetiche e di riferimenti alla vita del monaco errante, dello Yogi, del Siddha, e alla sadhana esoterica. Perciò è un testo complesso, anti-intuitivo, ironico, poi beatifico e estatico, a tratti oscuro, comunque veloce, ritmato e vivace.
E’ un poema scritto con l’intento di sfidare l’intelligenza e le aspettative del lettore, e perciò per destrutturare il linguaggio e la mentalità razionale, e con esso il pensiero di chi legge. Il suo scopo è spingere a tuffarsi nell’orizzonte – o nel logos – del siddha, che è l’outsider e il mago, l’enigma in persona, al di là del duale e del non duale: lo Yogi Gorakh è “il fanciullo che parla dal più alto dei cieli”.
Si tratta di un orizzonte di meditazione che è molto radicale rispetto a quelli in voga ai nostri giorni. Il testo offre molti punti letteralmente di appoggio, su cui sviluppare quel percorso di meditazione, come inteso originariamente, su cui lo yogi deve lavorare in autonomia. Si spalanca l’orizzonte della meditazione, in cui approfondire le singole stazioni.

A differenza del sapere religioso, ben noto e reiterato dalla tradizione tra i confini del "villaggio", il sapere che Gorakh incarna non può essere indicato tra le definizioni che sono postulate dai dotti, dalle usanze e dai sacerdoti. Egli è un sapere incarnato e vivente, sempre nuovo, imperituro e rinnovato dall’esperienza che nel tempo è maturata nella coscienza degli yogi che hanno intrapreso lo stesso cammino, che si illuminerà con l’immagine già misteriosamente addotta da Eraclito. “Un fanciullo che parla dall’alto dei cieli”.

La Parola (Sabad) che andiamo a esporre è esoterica, codice e chiave di accesso a un regno e un pensiero differenti. Nessuno può dire di possederla, poiché la sua espressione è il suo stesso occultamento e la sola chiave d’accesso è il risveglio che riesce a suscitare. Il Sabad deve procurare il risveglio della stessa condizione nell’interlocutore, risvegliare il Sabad. Non è un sistema normativo che si possa imporre, non è un’ideologia a cui si possa aderire, non è un argomento che si possa padroneggiare, non è una tesi che si possa confutare o un sistema da applicare alla lettera. Sabad è la libertà della Parola ispirata, dell’esperienza diretta, del cuore di chi parla, il riverbero del suono primordiale incausato. Sabad è il seme stesso che si getta nel terreno del cuore, dove Gorakh "ara il campo". Chi nasce da quel seme è "uno di noi".

 

Testo e commento del Gorakh Bani sono pubblicati su Satsang.it

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