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Testi del Vedanta, dello Yoga e della tradizione Hindu.

Dal 2001 Visionaire.org è scritto, illustrato, pubblicato da Beatrice Polidori (Udai Nath)

Testi del Vedanta

Bhagavad Gita

Il Signore creò  il mondo, e volle proteggere la sua esistenza. In primo luogo fece i progenitori, guida delle genti (prajaa - Pati), a partire da Marichi, e  impartì loro la legge  (Dharma), caratterizzata dai precetti operativi  (pravRitti) descritti nei Veda. Poi creò Sanaka, Sanandana e altri, e impartì loro la legge della rinuncia all'azione (NIVRitti), dalla conoscenza e dal  distacco. Duplice è la Legge descritta nei Veda - una di azione e l'altra di rinuncia all'azione – con cui è retto il mondo. Questa duplice legge deve essere osservata da parte dei membri di tutte le classi, a cominciare dai Brahmana, per tutta la durata delle stagioni della vita, in quanto porta direttamente a ottenere la prosperità e la liberazione, il Sommo Bene.

Nel corso del tempo, a causa dell'egoismo di coloro che dovevano difendere legge, e la conseguente diminuzione della conoscenza discriminativa, l'ingiustizia divenne più potente e prevalse sulla legge. Volendo mantenere la stabilità del mondo, il Creatore primordiale, che tutto pervade, il Signore (Vishnu), chiamato Narayana, si incarnò e nacque da Devaki e da Vasudeva, come Krishna, al fine di ristabilire la legge divina dei Veda.  Solo se la Legge vedica è preservata, il suo spirito proteggerà la vita delle diverse classi di persone.

Ashtavakra Samhita

Tu non appartieni ai bramini, ai guerrieri né ad altra casta, tu non sei in alcuno stadio di vita, non sei nulla di ciò che i tuoi occhi possono vedere. Sei privo di attaccamento e di forma, il testimone di tutto - [dunque] sii beato, ora. Giusto e ingiusto, piacere e dolore appartengono soltanto alla mente e non ti riguardano. Tu non sei l'agente o il fruitore delle conseguenze [dell'agire]; tu sei sempre libero.

Tu sei l'unico testimone di tutto, completamente libero. La causa della sofferenza è nel ritenere il testimone qualcosa di diverso da questo. Finché sei stato ingannato dal nero serpente dell'opinione di te stesso, hai creduto stoltamente: "io sono colui che agisce"; ora dissetati col nettare dell'evidenza: "io non sono colui che agisce" e da subito sii felice. Brucia la foresta dell'illusione con il fuoco della conoscenza.

Mandukya Karika di Gaudapada

Mi inchino al Brahman che pervade l'universo con l'effusione della conoscenza, che pervade ciò che è mobile e ciò che è immobile, Colui che osserva tutto quello che può essere conosciuto nel mondo grossolano [durante lo stato di veglia], Quello per cui si sperimenta tutto ciò che nasce dal desiderio ed è illuminato dall'intelletto [durante lo stato di sogno], e che riposa nella Sua beatitudine e fa che tutti noi vediamo attraverso la Sua Maya, quello che, nei termini di Maya, è il Quarto [Turiya] e il supremo, immortale e non nato.

Turiya, il Sé dell'universo - che osserva i frutti della virtù e del vizio nel mondo grossolano, che conosce gli oggetti sottili creati dalla Sua intelligenza e illuminati dalla Sua luce e che riassorbe tutto questo gradualmente in Sé, e che abbandonata ogni differenziazione diviene privo di attributi – che possa Egli accordarci la Sua protezione.

श्रुति Śrūti

Ishavasya Upanishad

Il volto della Verità è nascosto da una maschera d’oro; rimuovilo, oh Conoscitore, perché trionfi la verità, perché sia veduto. O Conoscitore, o Veggente, o Ordinatore, Sole Illuminante, o Padre delle creature, apri i tuoi raggi divini, trattieni il tuo ardore, affinché io possa conoscere il tuo volto benedetto. L'essere luminoso che abita in te, quello io sono.

Brhadaranyaka Upanishad

Om! L'aurora è il capo del cavallo sacrificale; il sole è il suo occhio, il vento il suo respiro, il fuoco onnipresente la sua bocca, l'anno il suo corpo. Il cielo è il dorso del cavallo sacrificale; l'atmosfera è la sua pancia, la terra il suo inguine; i punti cardinali sono i suoi fianchi, i punti intermedi le sue coste, le stagioni le sue membra, i mesi e le quindicine le sue giunture, i giorni e le notti le sue gambe, le costellazioni le sue ossa, le nubi le sue carni. La sabbia è il cibo che egli digerisce; i fiumi i suoi intestini, i monti il suo fegato e i suoi polmoni, le erbe e le piante la sua criniera; il sole che si leva è il davanti del suo corpo, dietro il sole che tramonta. Il lampo è il suo ringhio, il tuono lo scuotimento del suo corpo, la pioggia la sua orina, la voce della parola il suo nitrito.
Il giorno, che posa sull'oceano orientale, fu la coppa posta dinanzi al cavallo. La notte, che si trova sull'oceano occidentale, fu la coppa posta dietro al cavallo. Egli fu il Destriero che portò gli Dei, lo Stallone che portò i Gandharva, il Corsiero che portò i Demoni, e infine portò gli Uomini, come fa il Cavallo. Egli è di casa nell'oceano, dove si trova la sua stalla.

Mandukya Upanishad

 

Tutto è contenuto nella sillaba Om.

Il passato, il presente e il futuro non sono altro che la sillaba Om.

Quello che trascende la triade temporale, a sua volta, è l’Om.

Tutto è Brahman.

Il sé è Brahman.

Ecco il Signore supremo, l’onnisciente, il regolatore interno;

esso è il principio, l’origine e la fine di tutti gli esseri.

 

Sri Adi Shankara

Shankaracharya

Vivekacudamani

“Il gran gioiello della discriminazione”  
Istruzione sul discernimento spirituale

1. Rendo onore al sadguru Govinda la cui natura è suprema beatitudine, il quale si rivela mediante l’insegnamento vedantico che è di là dal linguaggio e dalla percezione mentale.
2. Per tutte le creature viventi non è agevole avere una nascita umana, in particolare ottenere un temperamento maschile, più difficile è perseguire il sentiero della devozione vedica, più difficile ancora è acquisire la perfetta conoscenza delle Sacre scritture. Altresì è raro discriminare tra il Sé e il non-Sé e realizzare l’identità del Sé con Brahman. Questo tipo di liberazione perfetta è il risultato di meriti accumulato nel corso di innumerevoli nascite.

Soundarya Lahari, L'Onda della Bellezza

"L'Assoluto è senza forma, ma l'energia è femminile. Quando l'energia prende forma, è chiamata Madre. Madre è la potenza in movimento, che solleva in onde le acque calme dell'Assoluto." Swami Vivekananda

"Non c'è Shiva senza Shakti o Shakti senza Shiva. I due, per loro stessa natura, sono uno. Ciascuno di essi è coscienza e beatitudine." Arthur Avalon

"Shakti è l'energia primordiale latente,  indifferenziata e auto-cosciente, che tutto pervade, che si manifesta per creare l'universo dopo il diluvio o la grande dissoluzione (Mahapralaya). Questa Shakti non è diversa dalla coscienza (Cit), il loro rapporto è di inseparabile unità (Avinabhava Sambandha) come tra il fuoco e il calore, un soggetto e le sue caratteristiche, la parola e significato ecc. In altre parole, uno non esiste senza l'altra." 

Advaita Sadhana

Antologia degli insegnamenti di
Sri Chandrasekharendra Saraswati Swamigal.
Commento del Vivekacudamani di Shankara. [PDF]

Con grande compassione il nostro Acharya Shankara Bhagavatpada ha tracciato il Saadhanaa-kramaM (il metodo della Sadhana) per raggiungere lo scopo dell’Advaita. Tutto ciò che ha fatto è in accordo con la Sruti (i Veda). Il corpo dei Veda ha una testa, le Upanisad. Esse sono chiamate ‘shruti-shira’, che significa ‘la testa della Sruti’. L’alto edificio della Sadhana costruito per noi dall’Acharya è fondato sulle Upanisad.
Egli ha tracciato un programma chiamato ‘Saadhana-chatushhTayaM’ (la Sadhana in quattro fasi). Nel suo monumentale commento al Brahma Sutra fin dall’inizio dice: 'nitya-anitya-vastu-vivekaH' si deve discriminare tra ciò che è reale e cioè che non è reale e nomina la quattro fasi del cammino.
Come il Sutra-Bashya è il culmine dei commenti scritturali, il Viveva-Chudamani è la massima espressione delle opere dette prakarana. In questo testo è data una perfetta definizione delle quattro fasi del Saadhana-chatushhTayaM.

La filosofia di Shankara

La filosofia di Shankara

Questo articolo esamina l'Advaita Vedanta classico di Shankaracharya e alcune questioni basilari di epistemologia e soteriologia. La presentazione rimarrà fedele a ciò che Shankara ha effettivamente detto ed eviterà interpretazioni speculative del suo pensiero, come ad esempio le forme dell'Advaita Vedanta che possono significativamente essere adattate in modo da soddisfare le esigenze degli occidentali moderni. Per la maggior parte ci si riferisce ai commenti di Shankara sul Brahma Sutra e Brhadaranyaka Upanishad, forse i suoi lavori più importanti, con alcuni riferimenti anche ai suoi altri scritti. 

Ascolto, riflessione e meditazione nella pratica dell'Advaita Vedanta

L'analisi mentale dell'Upadesha (insegnamento) attraverso la riflessione costante è l'esercizio detto Manana. Successivamente, quando non esiste più necessità e scopo per ulteriore analisi e discussione, si procede con NidhidhyAsana, che è lo stato in cui la mente è concentrata esclusivamente nell'identificazione con l'atman- tattva, su cui si è giunti a una perfetta chiarezza, e la mente non è scossa da alcun movimento.

La Mente e la funzione dei Mahavakya.

La mente, che è chiamata 'organo interno' (antaHkaraNam), è indicata con quattro nomi in base alle rispettive funzioni: manas, buddhi, chittam e ahamkAra. La funzione del pensiero è conosciuta come manas, che designa l'attività della mente ordinaria, come comportamento, esperienza di piacere, repulsione, reazione e relazione. Quando viene presa una decisione, appellandosi al senso etico, alla verità, al discernimento, è detta buddhi o intelletto. La funzione di memorizzare le esperienze e le informazioni, e di compiere operazioni formali, è chiamata chittam. Il senso dell'io è ahamkAra. 

Devi Mahatmya

 

Durante il Navaratri, in India è tradizione leggere il Devi Mahatmya, suddiviso per i nove giorni (notti) dedicati alla Madre divina. La lettura di questo testo è una pratica devozionale riconosciuta e ricca di insight significativi. Il testo è stato tradotto e curato dai miei studenti durante il Solstizio d'estate 2020, anno apocalittico e insieme straordinario, e quindi da me revisionato commentato durante il Navaratri, per condividere la lettura del testo, a protezione e conforto dei devoti della Madre e di tutti. Lo dedichiamo al Navaratri d'autunno per tutti coloro che cercheranno rifugio nella Sapienza in tempi di angoscia. Adesh Adesh. Jay Ma!

 

Introduzione:

I. ORIGINE E TRADIZIONE DEL CULTO DELLA MADRE DIVINA IN INDIA.

II. IL DEVI MAHATMYA.

Giorno 1: Capitolo I (Madhu kaitabha samhaaram)

Giorno 2: Capitoli II, III, IV (Mahishhasura samhaara)

Giorno 3: Capitoli V, VI (Dhuumralochana vadha)

Giorno 4: Capitolo VII (Chanda Munda vadha)

Giorno 5: Capitolo VIII (Rakta biija samhaara)

Giorno 6: Capitoli IX, X (Shumbha Nishumbha vadha)

Giorno 7: Capitolo XI (Lode di Narayani)

Giorno 8: Capitolo XII (Phalastuti)

Giorno 9: Capitolo XIII (Benedizione di Suratha e Samadhi)


Testo e commento del Devi Mahatmya in PDF

di Maria Vassallo

L’imitazione pittorica secondo il sacro canone

Le immagini cultuali dell’India, che possiamo definire come vere e proprie epifanie dell’Invisibile, costituiscono per lo spettatore-iniziato indiano un “ponte” che collega visibile e invisibile, terrestre e celeste. Allo stesso modo l’arte in sé, in India considerata divina, costituisce per il sailpin, l’artista, una via che conduce al divino. L’artista è soprattutto un uomo dedito alla contemplazione poiché è dalla contemplazione stessa che le opere d’arte sacra provengono e non possono che provenire da essa.

In India la pratica dell’arte sacra non è mai stata dominata esclusivamente da interessi di tipo economico e non ha costituito un vero e proprio commercio. Nell’evenienza in cui l’artista venda occasionalmente le proprie opere, non lo fa per sete di guadagno, ma rimane sempre un uomo libero dalla logica del profitto e dalla forma mentis del mercante.

I manuali indiani sailpa, ossia i trattati inerenti alla “disciplina della forma della realizzazione delle immagini” impongono innanzitutto all’artista di essere una persona di animo nobile. È la sua intera personalità a essere investita: virtù essenziale alla pratica dell’arte è la fede ma egli deve anche possedere le qualità di chi potrebbe definirsi“un uomo buono e saggio”.

L’arte costituisce un rito che noi occidentali definiremmo metafisico o devozionale, al quale l’artista consacra interamente se stesso.

Lontano dal frastuono della vita mondana e libero da ogni altra preoccupazione, con dedizione e buona volontà, lavorando in solitudine, egli compie fedelmente il suo lavoro esclusivamente in vista del bene e della bontà dell’opera da compiere. Scevro da qualsiasi volontà di esibizionismo o compiacimento per la propria abilità, egli non mira al successo e agli onori: e ciò è testimoniato dal fatto che, in India, raramente l’autore appone il proprio nome alle opere da lui realizzate.

Queste ultime non sono mai un’espressione creativa scaturita dal talento artistico, dalla genialità individuale, dalla personalità o dalle emozioni dell’uomo-artista. Egli le esegue esclusivamente ad maiorem gloriam Dei ma, al tempo stesso, trae piacere dal proprio operato poiché ama il suo lavoro. Insegna la Bhagavadgita: «Chi si trova ad  aver piacere nel proprio lavoro raggiunge la perfezione. L’individuo raggiunge la perfezione rendendo omaggio, mediante la sua opera, a Colui dal quale promanano lo sviluppo degli esseri e tutto questo universo».  

L’arte, vocazione naturale tipicamente ereditaria (svadharma) dell’artista, è intrinseca alla sua stessa natura e la tradizione artistica dei  lavori manuali, come qualsiasi altra occupazione, nella patria delle caste, si tramanda di regola da padre in figlio.

L’artigiano tradizionale indiano è rispettoso del dharma (termine complesso che indica la “giustizia” ma anche l’ordine socio-economico e la cui radice dhr esprime essenzialmente l’idea di stabilità) e lavorando come artista realizza ciò che la sua natura (svabhavatas) gli “impone” di fare (svakarman). Ciò significa «esplicare i propri compiti secondo la propria naturale predisposizione», in conformità a  quello che potrebbe definirsi l’ideale platonico di Giustizia.

A tal proposito, il testo Maunavadharmasastra recita: «È meglio ilproprio dovere pur senza alcuna buona qualità che il dovere altrui ben fatto» e, in modo quasi identico, la Bhagavadgita così si esprime: «Migliore è il proprio dovere [inerente alla propria natura], per quanto imperfettamente incompiuto, che il dovere di un altro ben praticato. Colui che compie il proprio dovere inerente alla propria natura non commette errore».

L’arte esercitata dall’artista è una scienza, una padronanza da acquisire, un procedimento razionale che passa attraverso uno speciale e profondo addestramento e uno studio specifico. Oltre a un’innata grande maestria e abilità artistica, necessitano tecnica e metodo da apprendere in bottega. Egli deve anche possedere la conoscenza dei Testi Sacri unitamente a nozioni di architettura, astronomia, astrologia e fisiognomica.

Essenziale per una preparazione completa è soprattutto la perfetta conoscenza di tutte le regole dello sailpa (“disciplina della forma della realizzazione delle immagini”), impartitegli oralmente secondo l’antica tradizione della trasmissione (gurusisyaparampara), fedele e conservatrice, da maestro (guru) a discepolo. In tal modo, in scuole rigidamente chiuse presso le quali anche la funzione di maestro è ereditaria all’interno della discendenza dell’insegnante, di generazione in generazione, si formano artisti per i quali l’arte è un corpo di conoscenze tramandate di origine sovrumana.

In un equilibrio polare di metafisico e fisico, l’opera d’arte sacra fonde elementi formali-intelligibili (namavat) e materiali-sensibili (rupavat). Essa dipende da entrambe le due nature dell’artista la divina e l’umana.  

L’arte è, dunque, un rigoroso procedimento pratico e razionale guidato dalla Conoscenza, nel corso del quale l’operazione intellettuale di tipo contemplativo (dhyana) è antecedente all’esecuzione manuale e fisica di tipo operativo (karman). Prima di iniziare la sua opera, infatti, l’artista, attenendosi alle istruzioni della sacra tradizione nella quale è iniziato, si purifica fisicamente e spiritualmente secondo una prescrizione canonica che gli impone di compiere dei riti e sottoporsi a lunghi digiuni e meditazioni, unitamente alla pratica della recitazione di mantra.  

Il fine di tali pratiche, che ne avvicinano la figura a quella dello yogin (colui che pratica lo yoga), è quello di evocare dentro di sé l’immagine del soggetto da realizzare e, fattala emergere, compiere una completa identificazione con essa. «È necessario – come scrive Platone – che si renda simile, secondo la sua antica natura, il contemplante al contemplato», in quanto non è possibile trasmettere quello che non si possiede o non si conosce “in se stesso” e “come realmente sia”.

L’artefice deve, dunque, prendere conoscenza della forma da rappresentare e identificarvisi fin nei dettagli: colui che ha la visione e la visione stessa diventano Uno ed egli raggiunge il samadhi (cfr. il greco synthesis), cioè l’Unione del Divino diviso.

Il pittore si dedica alla meditazione in quanto unico strumento che possa consentire di conoscere il vero carattere di un’immagine: indotta la mente a uno stato di quiete assoluta, egli vede l’immagine intelligibile con “l’occhio della mente” o “l’occhio del cuore”, ciò che Platone definisce «l’occhio dell’anima», tratto e guidato in alto, dal metodo dialettico, verso il principio stesso. In altre parole gli “occhi dello spirito” colgono la “forma interiore” e l’artista visualizza dentro di sé la forma visibile dell’entità di ciò che dovrà pittoricamente realizzare.  

Non è, quindi, possibile cogliere il modello (exemplar) sperimentalmente, ossia mediante le facoltà empiriche o l’esperienza di un’osservazione diretta, ma soltanto “intellettualmente”. È nell’intelletto dell’artista, infatti, che sussiste l’idea in forma imitabile, la quale non è, però, prodotta dall’invenzione umana, ma costituisce una vera e propria rivelazione. Talvolta tali immagini si manifestano in sogno durante il sonno. In entrambe le circostanze, l’artista si mette manualmente all’opera utilizzando come modello queste “visioni”.

Svuotata la mente da ogni altro contenuto e il cuore da ogni interesse estraneo, soltanto la concentrazione fisica e mentale può far sì che egli riesca a dominare il suo spirito e richiamare alla mente fedelmente e con accuratezza ogni particolare di ciò che deve essere raffigurato. Questo tipo di operazione si rivela alquanto difficile a causa della labile natura di siffatte manifestazioni, ma è assolutamente essenziale: deve esservi una totale concordanza e nessun dettaglio può essere trascurato affinché la riproduzione sia completa e perfetta.  

L’artista deve trasferire sulla parete “esattamente” ciò che ha visto nella contemplazione. Soltanto in questo modo, il dipinto della sacra immagine potrà racchiudere in sé le qualità peculiari della pura visione interiore dalla quale si è originato, catturando l’essenza di ciò che l’artista ha visualizzato mentalmente grazie alla concentrazione.

L’immagine, o forma mentale dell’artefatto da realizzare, concepita prima di produrre l’oggetto, precede, dunque, temporalmente e logicamente il prodotto finito costituendone la “causa formale”. Secondo la dottrina platonica, è proprio da quest’ultima che la bellezza di un’opera d’arte dipende: «quando l’artefice, guardando sempre a quello che è nello stesso modo e giovandosi di così fatto modello,esprime la forma e la virtù di qualche opera, questi di necessità esce bella: non bella, invece, se guarda a quel che è nato, giovandosi d’un modello generato». Un’opera iconografica è “bella” se esprime una“adeguatezza reale” rispetto all’essere “tale” (oi`on ), alla forma (i;de va ) e alla potenza (...)  dell’archetipo divino che essa simboleggia e che, al tempo stesso, ne costituisce il fondamento. Ogni bellezza è tale non per il colore o l’aspetto, ma perché ha qualcosa in comune con un “modello eterno” cui essa partecipa (mete vcei ).

Come spiega A. K. Coomaraswamy, tra i più profondi studiosi di arte indiana del novecento, in sanscrito il termine alamkrta, che originariamente esprimeva il concetto di “reso adeguato”, finì con il significare “abbellito” e, inoltre, il termine saubha, che vuol dire “bello”, implica l’idea di Bene.

L’artista indiano non realizza, pertanto, opere ispirate dal proprio gusto individuale o sentimento estetico: la bellezza artistica è “oggettiva”, vale a dire in sé intrinseca all’oggetto. Essa costituisce il principio dell’arte e dipende dalla “perfezione” dell’opera nel suo genere, ossia dalla sua “correttezza” (recta ratio).

Un’immagine pittorica eseguita “secondo Verità” costituisce la manifestazione fisico-spaziale, rispecchiando quella percepita interiormente dall’artista. Per realizzarla, l’artista non può, dunque, che imitare la forma immaginata.

Scrive Eliade: «sul piano etimologico “immaginazione” è solidale con imago, “rappresentazione, imitazione” e con imitor, “imitare, riprodurre”. (…) L’immaginazione imita dei modelli esemplari – le immagini – li riproduce, li riattualizza, li ripete incessantemente».

Secondo la teoria tradizionale indiana dell’arte, ogni operazione artistica è in fondo un’imitazione di ciò che la divinità ha fatto in principio. Tutte le arti sono indubbiamente mimetiche: è mediante l’imitazione che esse esprimono i temi che le informano.

Anche per Platone la pittura è imitazione (mi vmhsis) e il pittore deve realizzare immagini che siano somiglianti agli oggetti, così come i nomi appropriati alle cose sono a esse “somiglianti” e sono di esse “immagini”.

«L’imitazione o “rap-presentazione” di un modello”, scrive Coomaraswamy, “comporta certo una somiglianza (ovmoi va , similitudo, sanscr. sadrsaya), ma non quel che noi intendiamo con “verosimiglianza” . Tradizionalmente per “immagine somigliante” non s’intende una copia, ma un’immagine congenere (suggenhv) ed “eguale” (i vso ) al modello; in altri termini, un simbolo, naturale e “ad-eguato”, del suo referente, un’imitazione fatta bene e secondo verità”. Occorre, però, che esista con l’archetipo un’uguaglianza circa il “quanto”(tosou`ton , o vson ) e il “quale” (tosou`ton , oi von ) – ossia un’uguaglianza di forma (ide va ) e di forza (duvnami")».

Se in sanscrito il concetto di “imitazione” è espresso dal termine “anukarana”, che indica proprio il “fare conformemente a”, il già citato vocabolo “sadrsaya” designa una somiglianza da intendere come “adeguatezza reale”.

La vera e propria ritrattistica è, infatti, di per sé biasimata dai testi sailpa: le immagini degli uomini non conducono al cielo né operano il bene. Nella cultura dell’India persino i soggetti terreni, vale a dire le effigie dei defunti o le immagini delle persone in vita, non sono realizzate secondo la reale fisionomia degli individui, ma in virtù di una loro transustanziazione e riflettono più una tipologia archetipica (nama)che un’effettiva rassomiglianza fisica, assolutamente illusoria.

Nell’arte figurativa, “a immagine e somiglianza” della visione interiore, la somiglianza concerne, dunque, soltanto la forma. Sono i princìpi universali, i prototipi celesti, a dover essere imitati e riprodotti nelle opere d’arte umane e, data l’invisibilità del modello, formale, intelligibile e non percepibile, non si potrà, quindi, esigere una somiglianza che sia “visibile”.

Tale somiglianza formale delle cose sensibili a prototipi spirituali si fonda sul principio che qualsiasi forma umana (sailpa) è creata a imitazione (anukrti) delle forme divine (daivyani sailpani).

Anche per Platone, un artista deve basarsi sugli originali divini. La presenza dell’«imitatore che non si intende per nulla di ciò che è, ma di ciò che appare» e imita qualsiasi cosa senza distinzione, non è per lui necessaria, anzi chi è capace di ogni imitazione deve essere addirittura allontanato per evitare che l’imitazione di modelli disdicevoli «li porti al bel guadagno di essere ciò che imitano».

È questo il rischio di ciò che egli definisce “arte dell’apparenza”, distinguendo quest’ultima da un’altra specie dell’arte del fare immagini, l’“arte del rappresentare”, cioè del realizzare “rappresentazioni”.

La validità di un’immagine imitata non risiede, dunque, nell’essere realistica né tanto meno “tale e quale” il modello perché si tratterebbe di una somiglianza assoluta, di un’uguaglianza, un’identità.

L’immagine deve possedere qualcosa in comune con il raffigurato, ma il suo fondamento è il rap-portarsi, il portarsi di uno stato di cose a un altro stato di cose: essa è simile e al tempo stesso dissimile.

La vera imitazione, basata sulla somiglianza, fondamento della pittura, necessita di un’identità nella differenza e di una differenza nell’indifferenza. Questo non-senso è la condizione stessa del senso dell’immagine somigliante.

Dovendo imitare un archetipo invisibile, privo di un aspetto che possa essere imitato visibilmente, l’imitazione, secondo Platone, deve pertanto fondarsi su «qualche parentela» (sugge vneia ) che “rammenti” efficacemente la causa formale dell’oggetto di cui si fa interprete.

«I prototipi celesti (nama), infatti, data la loro perfetta semplicità e invisibilità non possono essere rappresentati come “sono”. Per essere manifestati in una rappresentazione sotto forma materiale e sensibile (rupa) che sia non una “figura” (rupam) ma una “forma propria” (svarupam) ossia realmente “somigliante” alla natura dell’archetipo, necessitano di simboli adeguati che li imitino. Questi ultimi costituiscono tutto ciò che è possibile comunicare del Principio, che non ha sembianza alcuna».

L’immagine sacra indiana è essa stessa un simbolo: non è solo un oggetto perché intelligibile ma, al tempo stesso, non è neanche il prototipo, in quanto sensibile.

Scrive Platone: «questa cosa che ora io vedo tende a essere come un’altra, e precisamente come uno di quegli esseri che esistono per se stessi, e tuttavia ne difetta, e non può essere come quello, e anzi gli rimane inferiore».

È esclusivamente al modello eterno che la venerazione tributata alle immagini artistiche dovrà rendere onore riferendo, dunque, soltanto al prototipo che vi è rappresentato, dal quale l’immagine trae origine, il culto di ciò che gli è stato consacrato.  

La critica al realismo della ritrattistica delle forme “inventate” dall’uomo-artista è fondata soprattutto sul timore che esso possa indurre a considerare il Dio solo “un uomo raffigurato”, oppure provocare la venerazione idolatrica dell’opera in sé, equivoco che essa stessa non sia solo un “sostegno per la contemplazione”, ma l’oggetto stesso della contemplazione.

La questione è da ricondursi, inoltre, al concetto che il “Brahman provvisto di sembianze”, modalità di manifestazione del sacro, pur se strumento essenziale per la conoscenza del Brahman impersonale, è una soglia da oltrepassare. La Maitry Upanishad spiega che «Agni, (…) Brahma, Rudra, Visnu (…) sono le forme principali del supremo, immortale, incorporeo brahman. (…) Si mediti pure su quelle che sono le migliori forme <del Brahman>. Indi le si respinga, poiché esse sono<null’altro che> mezzi per procedere in mondi sempre più elevati (…) ».

Il Brahman non è ciò che gli uomini venerano quaggiù, pertanto chi ha conseguito la Gnosi può fare a meno delle effigie del dio. L’immagine non mostra più alcuna utilità e spesso alcune effigie cultuali allestite ritualmente, assolto il loro compito, sono distrutte e dissolte nelle acque dei fiumi. L’immagine deve essere allora intesa e adoperata quale mero supporto per la contemplazione e la “reminiscenza” ossia un coadiuvante, un punto d’appoggio per la meditazione.

Se non è storicamente corretto affermare che in India non sia mai stata rappresentata alcuna immagine antropomorfica della divinità prima dell’era cristiana (vi sono eccezioni risalenti sino al III millennio a.C.), è invece fuor di dubbio la negazione dell’immagine cultuale alle origini della civiltà indiana.

Come scrive Coomaraswamy, «l’arte indiana più antica è essenzialmente “aniconica”, impiega cioè quali sostegni per la contemplazione solo simboli geometrici, vegetali o teriomorfi, proprio come l’arte paleocristiana».

È a partire dal periodo storico che corrisponde ai primi secoli della nostra era cristiana che compaiono le effigie delle grandi divinità dell’induismo e inizia il fiorire dell’iconografia sacra. Nel III-V secolo d.C., epoca denominata “gupta” dall’omonima dinastia che la caratterizzò, l’iconografia indiana si diffonde. È il suo momento di massimo splendore, quello che sarà definito il “periodo classico” dell’arte indiana (III-VI secolo d.C.), periodo in cui i più importanti dipinti sacri murali sono quelli buddhisti dei templi nelle caverne di Ajantha (VI secolo d.C.).  

Nel medesimo periodo, le arti erano strettamente associate tra loro in un unico concetto di opera d’arte: sailpa (architettura, scultura, pittura), definibile “disciplina della forma della realizzazione delle immagini”. Il sailpa si ricollega all’Atharva Veda, il quale si occupa della magia, delle attrattive e vicende di questo mondo.  

L’immensa letteratura sailpa, che costituisce un vero e proprio statuto della forza sacra dell’immagine, attesta la convinzione della Prasana Upanishad (appartenente al ciclo dell’Atharva Veda) e cioè che spirituale e materia si armonizzano rendendo l’invisibile percepibile attraverso il visibile.  

Il sailpin, conscio che il valore dell’arte risiede in quello che essa evoca, trasferisce in pittura ciò che ha visto nella contemplazione e lo fa rispettando una “norma” (ratio), ossia attenendosi scrupolosamente a particolari “canoni” convenzionali. Eseguendo in ogni dettaglio quanto è stato prescritto ed escludendo quanto non lo è stato, egli trova nel “canone” un sostegno all’atto contemplativo nel quale visualizzerà una forma imitabile.  

Al pittore è, dunque, proibita l’immaginazione creativa in quanto egli deve attenersi a un rigidissimo canone iconografico che inflessibilmente preclude qualsiasi individualismo nella scelta dei particolari, così come qualsiasi intervento arbitrario sulla forma o preferenza sulla selezione cromatica. Ciò può apparire certo limitativo, ma non si traduce affatto in un’obbligata riproduzione meccanica di moduli prefissati. Sebbene prendano le mosse da modelli immutabili per antonomasia e dalla rappresentazione di “prototipi”, in India gli artisti hanno saputo creare forme espressive sempre nuove e la sorprendente originalità delle splendide opere d’arte della tradizione indiana ne è una vivida testimonianza.  

L’esecuzione dell’arte indiana può, tuttavia, essere definita assolutamente “impersonale” in quanto rigorosamente legata al rispetto di un corpus di “regole” enunciate nei testi.  

Dalla preparazione dei singoli colori e della superficie da dipingere alla composizione delle forme e l’uso degli elementi figurativi dell’immagine cultuale, tutto è infatti decretato sulla base di precetti prestabiliti e accreditati dalla tradizione. Tali precetti, sebbene esistano comprensibili varianti riscontrabili mutando tempi e luoghi, sono considerati pressoché inalterabili.

Le “regole artistiche” sono desumibili sia dai modelli figurativi che le generazioni passate di artisti hanno lasciato, come rappresentazioni tipiche e vincolanti dell’arte sacra, sia dai già citati testi sailpa.

In questi ultimi figurano le pratima, termine che significa “ciò che deriva dal prototipo” e che indica le icone ma anche gli specifici capitoli del testo inerenti alle immagini cultuali. I trattati tecnici (sailpa-sastra) di tali capitoli costituiscono un immenso materiale informativo per reperire dati su come l’opera artistica debba essere eseguita.

Essi codificano i canoni in cui la norma è suddivisa, ossia le prescrizioni, definite nei dettagli, alle quali l’artista deve attenersi. Si tratta delle caratteristiche iconografiche prescritte dalla tradizione, delle metodologie, delle proporzioni, delle misure e delle istruzioni da seguire, unitamente ai criteri di tipo estetico che devono assunti dall’artefice per dare uno stile “appropriato” al soggetto. Il valore di significato di tali parametri iconografici, sui quali il pittore medita a lungo,precede, ovviamente, l’interesse puramente decorativo e stilistico.

Ad esempio i cosiddetti “ornamenti (bhusanam) della pittura” quali il contorno, la rappresentazione del chiaroscuro, il colore e le sue tonalità, non hanno uno scopo meramente estetico, non sono un’elaborazione superflua dell’arte: tali forme tecniche, considerate rigorosamente indispensabili, sono al tempo stesso forme espressive metaforiche, immagini di una verità spirituale. Ad esempio, l’aura dorata, che avvolge alcuni personaggi divini e sembra irradiare dalle loro figure, così come lo sfondo aureo di in dipinto, per il fulgore e la radiosità del loro puro splendore, la cui brillantezza è simile all’oro, simboleggiano la gloria e la spiritualità.

L’artista indiano ripone grande importanza anche nel tracciato dell’opera. Il diagramma di composizione, ossia il piano geometrico-matematico della configurazione essenziale dell’immagine da eseguire, svolge un ruolo fondamentale.

Le icone indiane sono caratterizzate dal fatto che le varie parti del dipinto non sembrano avere apparentemente alcun nesso organico tra loro. Il dipinto è tuttavia costruito intorno a un “centro ideale” che assicura l’unità e l’integrità compositiva nell’apparente disorganicità.  

Al centro dell’immagine vi è sempre un “punto vitale”, che non corrisponde al centro geometrico ed è il diagramma di composizione ad assicurare la perfetta integrazione di ogni elemento in un insieme organizzato attorno a tale “punto”.

Anche la pittura murale dell’arte indiana nella sua forma buddhista, come quella dei templi nelle caverne di Ajantha si presenta“disorganica” in quanto apparentemente priva di struttura, simmetria, “punto di fuga” e direzione. Nelle immagini del Buddha, la predominanza di linee orizzontali e verticali dell’impianto lineare è finalizzata alla trasmissione nello spettatore di un sentimento di intima quiete, serenità e pace interiore (santarasa).

«La struttura geometrica del mandala e degli yantra nel senso più stretto, che rappresentano lo specchio grafico di entità metafisiche, è rigorosamente fissata, poiché deve esprimere l’essenza di queste entità ed è quindi priva di ogni soggettività decorativa: la creatività individuale infatti ne distruggerebbe il carattere di accurata adesione ai canoni prestabiliti e snaturerebbe il disegno, trasformandolo in uno scarabocchio senza significato, anche se piacevole all’occhio», spiega Zimmer aggiungendo che, per ciò che concerne l’immagine cultuale figurativa (pratima), anch’essa simbolo visuale, «il termine prati-ma significa letteralmente “contro-misurazione” e indica ciò che è stato misurato e adattato sull’originale. L’effigie sacra è perciò la copia esatta di un’apparizione e, in quanto tale, è fedele, incondizionata, prestabilita e non arbitraria».

Nei trattati canonici, la tradizione, entro certi limiti variabili, prescrive, sin nel più piccolo particolare secondario e al di là di ogni arbitrarietà, ogni dettaglio considerato importante e significativo: la posizione che il personaggio occupa, la sua postura, gli abiti, la forma delle membra, le misure della struttura corporea, le peculiari caratteristiche fisiche, l’espressione facciale e persino la forma degli occhi.

Il modo in cui sono disegnati i tratti del viso, ad esempio, si rivela importante in quanto può determinare l’effetto per il quale gli occhi del soggetto dipinto sembrano guardare lo spettatore ovunque egli si sposti, “comunicando” l’onniveggenza del raffigurato.  

Le caratteristiche fisiognomiche (laksana), gli attributi (abharana) e i canoni di proporzione delle figure sono prestabiliti. L’artista li utilizza anche a discapito della verosimiglianza e naturalezza della scena raffigurata, nella quale, inoltre, è ravvisabile la deformazione delle cose. Essi convengono peculiarmente a seconda dei tipi iconografici.

Quelli utilizzati per le divinità, che differiscono rigorosamente da quelli propri agli uomini, sono desumibili dai già citati testi sailpa, ma anche dalla tradizione letteraria dei miti, da fonti epiche, poetiche e drammatiche, in cui è fissata una volta per tutte la descrizione di come quel dio si manifesti.

È possibile, ad esempio, trovare nel capitolo Balakanda del poema Ramayana, attribuito a Valmiki, una descrizione fisica di Rama, avatara di Visnu, così notevolmente accurata da soffermarsi persino sulle sue poderose mascelle. L’Agnipurana si presenta copioso di dati minuziosi sugli emblemi e i gesti da raffigurare per la riproduzione di ciascuna delle differenti apparizioni di Visnu. Questo testo enumera le varie disposizioni degli attributi tenuti nelle mani del dio e appropriati a ogni sua differente personificazione nell’iconografia delle sue diverse immagini cultuali. Esiste anche un’antica lista di particolarità iconografiche del Buddha, il quale possiede trentadue caratteristiche principali o maggiori e ottanta tratti specifici secondari o minori, così come molte descrizioni dell’aspetto di tantissime altre divinità.

Così l’artista desume quali siano gli abharana ed i laksana caratterizzanti, fissati per ogni singola forma divina, ossia gli ornamenti-attributi e i segni appropriati che esprimono la natura di quell’aspetto particolare del dio nella sfera fisica.

Le immagini prodotte, al fine di una loro correttezza formale, attraverso gli aspetti ed i tratti caratteristici, devono essere “conformi” alla configurazione ornamentale prescritta.

A differenza della divinità senza nome e senza forma, nirguna, incondizionata e dunque non-raffigurabile e non-qualificata, il Dio saguna, manifestazione personificata raffigurabile e qualificata, è essenzialmente dotato di “ornamenti” e la sua caratterizzazione è stereotipa. Privandola di tali elementi “formali”, assolutamente basilari, o alterando il repertorio tradizionale di segni simbolici, la sua raffigurazione risulterebbe incompleta.

Le armi o gli oggetti propri di una divinità ne simboleggiano iconograficamente il modus operandi e la sua stessa energia e, dunque, si rivelano fondamentali.

La Mazza, il Disco, la Spada e l’Arco con Faretra e Frecce sono alcune delle caratteristiche di Visnu. L’Arco e la Spada fanno parte anche dell’equipaggiamento di Rama.

La Spada, la Lancia e la Freccia (saara) sono simboli della Folgore archetipica; il Fulmine, la Saetta, la Lancia adamantina (vajra) costituiscono alcune delle numerose raffigurazioni dell’Asse del Mondo, evocanti il ruolo del Principio immutabile nei confronti della manifestazione universale.

I simboli che rappresentavano il Buddha nell’arte più antica erano quelli delle Orme, il Trono di Diamante, la Ruota del Mondo (chakra) e l’Albero sacro Asavattha (Pippal, Ficus Religiosa). Anch’essi sono legati all’idea di inalterabilità e immutabilità dell’Asse del Mondo, descritta da Platone come un asse luminoso di diamante. In seguito il Buddha cominciò a essere raffigurato antropomorficamente, in forma monastica o, più raramente, regale. Nell’iconografia del Mahayana i tipi regali del Buddha portano la Corona e tengono in mano la caratteristica Ciotola per la questua. Essi rappresentano il Cakravartin, il Buddha Re del Mondo che, spiega Guénon, «letteralmente è “colui che fa girare la ruota”, colui, cioè che, posto al centro di tutte le cose, ne dirige il movimento senza parteciparvi egli stesso». Nelle raffigurazioni in forma monastica, egli è invece caratterizzato dalla presenza dell’Aureola, simbolo di spiritualità, che ne circonda il capo o dal Fiore di Loto che ne sostiene la figura.

Il Loto è anche uno degli attributi di Visnu. Brahma, la dea della fortuna Lakshmi, il Jina e i santi del jainismo sono tutti iconograficamente rappresentati su un Fiore di Loto e il Buddha descrive i brahmana (gli appartenenti alla casta sacerdotale) paragonandoli all’acqua su un petalo di Loto.

Nella tradizione indiana e asiatica esso esprime simbolicamente l’idea di manifestazione, di processione cosmica e di “Mondo”. La“Terra” è, infatti, concepita come stabile sostegno che giace sulla superficie dell’Oceano primordiale delle Acque illimitate del non-manifestato ossia di tutte le possibilità dell’esistenza: cosmiche e di manifestazione. Il Loto è l’immagine di ogni estensione spaziale ed è definito dalla Maitry Upanishad come «l’etereo spazio: i punti cardinali e le direzioni intermedie sono disposte come suoi petali».

Il sostegno del Loto è anche raffigurato come uno stelo identico all’Axis Mundi, Asse dell’Universo che sostiene e separa il Cielo e la Terra e ha lo stesso significato di “Centro del Mondo”, ossia dell’aristotelico motore immobile.

L’iconografia sacra indiana, Verità rappresentata more figurali, dunque non è che un mosaico di simboli pittorici pregni di significato che dischiudono il mistero ontologico della rete di relazioni che unisce tutti gli ordini di realtà nel loro elemento comune: il divino.

Tali simboli non nascono dall’immaginazione individuale dell’artista, ma appartengono al patrimonio spirituale dell’India e, più in generale, a un inalterabile linguaggio simbolico universale della Tradizione unanime della Philosophia Perennis et Universalis, sapere iniziatico e segreto. Questo linguaggio di matrice metafisica è universalmente intelligibile: variamente ipostatizzato nei miti, nelle religioni e nelle filosofie, è comune, tanto all’Asia, quanto all’Europa o ai contesti islamici.


Maria Vassallo
http://www.unipa.it/dicem/?pagina=pubblicazioni

 

La Tradizione degli Yogi

GORAKHNATH E LA TRADIZIONE NATH

 

Adya (il principio maschile primordiale) e Adyā (il principio femminile primordiale) erano i due antichi dei che diedero inizio alla creazione. Successivamente nacquero quattro Siddha, dopo di loro nacque una ragazza, il cui nome era Gaurī. Per ordine di Adya, Śiva la sposò e discese sulla Terra. I nomi di quei quattro Siddha erano Mīnnāth (Matsyendranath), Gorakṣnath, Hāḍiphā (Jalendharnath) e Kānphā. Dal momento in cui furono creati, restarono assorti dalla pratica dello yoga e si sostenevano solo di aria. Goraksh Nath era al servizio di Mīn-nāth e Kanphanath era di Hāḍipā. 

dal Navanath Katha

Goraksha Sataka

La Centuria dei Versi di Gorakhnath

Om! Incomincia la centuria di Goraksha sull'Hata Yoga!
1. Mi inchino al venerabile Guru Matsyendranath, supremo bene, incarnazione della gioia; la cui semplice prossimità trasforma il corpo in pura coscienza e beatitudine.
2. Colui che, in virtù della paatica dell'adhdrbandha e delle altre tecniche posturali, illuminato dalla luce della coscienza, è lodato come Yogi e quale essenza e misura del tempo, degli yuga e dei kalpa, Colui in cui il Signore, oceano di conoscenza e beatitudine, ha preso forma, Colui che è superiore a tutti gli attributi qualitativi, manifesti e immanifesti, questi, Sri Minanath, io saluto devotamente
3. Avendo salutato con devozione il proprio Guru, Gorakhnath descrive la suprema conoscenza, ricercata dagli yogi, che conduce al Bene supremo.
4. Per il bene degli Yogi, Goraksa espone la Centuria di versi la cui conoscenza è il percorso sicuro verso lo stato supremo.
5. Questa è la scala che porta alla liberazione, per cui la mente è distolta dalle gioie dei sensi e si rivolge allo spirito, e con cui si sfugge la morte.

 

SIṢYĀ DARSAN

OṂ. Dall'eterno, l'Om emerge. Dall'Om, lo spazio [ākāś] emerge. Dallo spazio, l'aria emerge. Dall'aria, il fuoco emerge. Dal fuoco, l'acqua emerge. Dall'acqua, la terra emerge. La forma della terra è la bellezza della Dea. La forma dell'acqua è l'aspetto di Brahma. La forma del fuoco è la maya di Vishnu. La forma dell'aria è il corpo di Dio. La forma dello spazio è l'ombra del Suono [Nad] La forma del Suono emerge dall'eterno.

ABHAI MĀĀTRĀ JOG

OM. Il lignaggio dei Perfetti, la via della saggezza, la vera terra, la postura naturale e il respiro, la medicina filosofale del respiro yogico, la grotta dell'autocontrollo, l'astinenza come perizoma, il decoro come cintura di castità, l'unità trascendente come scialle di meditazione, l'unione, l'Uddhiana Bandh, il vero mudra, la virtù come abito, il perdono come cappello, l'ardore come supporto, l'introspezione come sacca delle elemosine, la pazienza come bastone, la discriminazione come spada, la pratica ascetica come ruota, il chakra radice come ciotola per l'acqua, la mente come acqua, l'elisir come cibo, la compassione, la meditazione del segreto, il discernimento come libro, la lingua come alchimia...

 

Adesh Adesh

Quando due Yogi Nath si incontrano, usano la parla आदेश (Ādeśa)per rivolgersi l'un l'altro il saluto. Nel dizionario Sanscrito o Hindi troveremo che la parola ādeś si traduce come ordine, legge, comando o istruzione, ma i Nath associano a essa un significato molto più ampio.

La parola ādeśa è composta di due parti: आदः (ādaḥ), e ईश (īśa), dunque ādaḥ + īśa = Ādeśa. आदः (ādaḥ) significa ricevere o essere legati a, mentre ईश (īśa) significa signore, padrone, ed è anche uno dei nomi di Shiva; inoltre esprime anche eccellenza, abilità, potere. I Nath ritengono che fu Shiva stesso il fondatore del loro ordine, con il nome di आदिनाथ (Ādi Nātha), "Il Primo Nath", "Il Maestro Primordiale", che è unanimemente accettato dagli Yogi come Adi Guru (Primo Guru) e la Divinità sovrana del Nath Sampradaya. E' detto anche Yogeshvara (il Signore dello Yoga) l'ideale ascetico stesso, signore di austerità e penitenza, Signore degli spiriti e delle anime. Nel senso più ampio, Adi Nath si può tradurre come "il Signore Primordiale", nel suo ruolo di Signore di tutto il creato.

GORAKSHA VACANA SAMGRAHA.

Le istruzioni di Gorakhnath. 

1. Alcune persone desiderano la non dualità, altri desiderano la dualità. Ma non troveranno la Realtà, che è sempre e ovunque la stessa, diversa dalla dualità e dalla non dualità.
2. Se il Dio (Shiva) a cui tutto va è immutabile, pieno, indiviso, allora oh! La maya, la grande illusione, le false nozioni di dualità e non dualità.
3. Si dice che il supremo Brahman sia libero dall'esistenza e dalla non esistenza, libero da distruzione e generazione, al di là di ogni concezione.
4. Coloro che conoscono la Realtà lo conoscono come infinito spazio, vera conoscenza e beatitudine, ignoto al ragionamento e all'esempio, al di là della mente, dell'intelletto e delle altre funzioni.
5. Shakti è inerente a Shiva, Shiva è inerente a Shakti. Si deve riconoscere che non c'è differenza tra essi, come tra la Luna e la sua luce.
6. Quindi Shiva senza Shakti non potrebbe fare nulla. Ma dacché è unito al suo potere (shakti), è causa di tutte le forme sensibili.
7. Dotato di infinita Shakti, Shiva perpetua il manifestarsi di tutte le forme, eppure rimane uno solo, senza secondo, nella sua propria forma.

Adi Nath, Matsyendra Nath e Goraksh Nath. L'origine della tradizione Nath.

Da tempo l'India è riconosciuta come un importante centro della vita spirituale, che ha esercitato grande influenza sullo sviluppo di tutta la civiltà umana. La storia del paese è stata sempre segnata dalle storie di diversi grandi santi, Siddha e MahaYogi, che appaiono di volta in volta a guidare l'umanità verso ideali più alti, grazie all'esempio delle loro vite illustri.

Alcuni aspetti degli insegnamenti dei Nath

La posizione metafisica dei Nath non è monista né dualista. E' trascendente nel più vero senso della parola. Essi parlano dell'Assoluto (Nath), al di là delle opposizioni implicite nei concetti di Saguna e Nirguna, o di Sakara e Nirakara. Perciò, per essi il fine supremo della vita è realizzare se stessi come Nath e restare eternamente radicati al di là del mondo delle relazioni. La via per conquistare tale realizzazione è detta essere lo yoga, su cui investono molta energia. Sostengono che la Perfezione non si posa raggiungere con altri mezzi, se non con il sostegno della disciplina dello yoga.

I Siddha e la Via del Rasa

Un Siddha è qualcuno che si dice abbia raggiunto poteri sovrumani (Siddhi) o un Jivanmukthi, un liberato in vita. Il termine potrebbe anche essere tradotto come il raggiungimento della perfezione o dell'immortalità. Tale Siddha dotato di un corpo divino (divyadeha) è Shiva stesso (Maheshvara Siddha). È il perfetto, che ha superato le barriere del tempo, dello spazio e dei limiti umani. Un Siddha nella sua forma idealizzata è liberato da tutti i desideri (anyābhilāṣitā-śūnyam), colui che ha raggiunto un'identità impeccabile con la Realtà suprema.

Gorakh Bani

 

Il Gorakh Bani è un poema sapienziale di epoca medievale attribuito a Gorakhnath, composto di 275 strofe, più una serie di composizioni aggiuntive, dette Pada.
E’ un testo dei più misteriosi e affascinanti. E’ il Sabad, la parola spontanea dell’illuminato, lontana dai canoni scolastici vedantini e dello yoga, invece enigmatica e fitta di allegorie ermetiche e di riferimenti alla vita del monaco errante, dello Yogi, del Siddha, e alla sadhana esoterica. Perciò è un testo complesso, anti-intuitivo, ironico, poi beatifico e estatico, a tratti oscuro, comunque veloce, ritmato e vivace.
E’ un poema scritto con l’intento di sfidare l’intelligenza e le aspettative del lettore, e perciò per destrutturare il linguaggio e la mentalità razionale, e con esso il pensiero di chi legge. Il suo scopo è spingere a tuffarsi nell’orizzonte – o nel logos – del siddha, che è l’outsider e il mago, l’enigma in persona, al di là del duale e del non duale: lo Yogi Gorakh è “il fanciullo che parla dal più alto dei cieli”.
Si tratta di un orizzonte di meditazione che è molto radicale rispetto a quelli in voga ai nostri giorni. Il testo offre molti punti letteralmente di appoggio, su cui sviluppare quel percorso di meditazione, come inteso originariamente, su cui lo yogi deve lavorare in autonomia. Si spalanca l’orizzonte della meditazione, in cui approfondire le singole stazioni.

A differenza del sapere religioso, ben noto e reiterato dalla tradizione tra i confini del "villaggio", il sapere che Gorakh incarna non può essere indicato tra le definizioni che sono postulate dai dotti, dalle usanze e dai sacerdoti. Egli è un sapere incarnato e vivente, sempre nuovo, imperituro e rinnovato dall’esperienza che nel tempo è maturata nella coscienza degli yogi che hanno intrapreso lo stesso cammino, che si illuminerà con l’immagine già misteriosamente addotta da Eraclito. “Un fanciullo che parla dall’alto dei cieli”.

La Parola (Sabad) che andiamo a esporre è esoterica, codice e chiave di accesso a un regno e un pensiero differenti. Nessuno può dire di possederla, poiché la sua espressione è il suo stesso occultamento e la sola chiave d’accesso è il risveglio che riesce a suscitare. Il Sabad deve procurare il risveglio della stessa condizione nell’interlocutore, risvegliare il Sabad. Non è un sistema normativo che si possa imporre, non è un’ideologia a cui si possa aderire, non è un argomento che si possa padroneggiare, non è una tesi che si possa confutare o un sistema da applicare alla lettera. Sabad è la libertà della Parola ispirata, dell’esperienza diretta, del cuore di chi parla, il riverbero del suono primordiale incausato. Sabad è il seme stesso che si getta nel terreno del cuore, dove Gorakh "ara il campo". Chi nasce da quel seme è "uno di noi".

 

Testo e commento del Gorakh Bani sono pubblicati su Satsang.it

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