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Testi del Vedanta, dello Yoga e della tradizione Hindu.

Dal 2001 Visionaire.org è scritto, illustrato, pubblicato da Beatrice Polidori (Udai Nath)

Testi del Vedanta

Bhagavad Gita

Il Signore creò  il mondo, e volle proteggere la sua esistenza. In primo luogo fece i progenitori, guida delle genti (prajaa - Pati), a partire da Marichi, e  impartì loro la legge  (Dharma), caratterizzata dai precetti operativi  (pravRitti) descritti nei Veda. Poi creò Sanaka, Sanandana e altri, e impartì loro la legge della rinuncia all'azione (NIVRitti), dalla conoscenza e dal  distacco. Duplice è la Legge descritta nei Veda - una di azione e l'altra di rinuncia all'azione – con cui è retto il mondo. Questa duplice legge deve essere osservata da parte dei membri di tutte le classi, a cominciare dai Brahmana, per tutta la durata delle stagioni della vita, in quanto porta direttamente a ottenere la prosperità e la liberazione, il Sommo Bene.

Nel corso del tempo, a causa dell'egoismo di coloro che dovevano difendere legge, e la conseguente diminuzione della conoscenza discriminativa, l'ingiustizia divenne più potente e prevalse sulla legge. Volendo mantenere la stabilità del mondo, il Creatore primordiale, che tutto pervade, il Signore (Vishnu), chiamato Narayana, si incarnò e nacque da Devaki e da Vasudeva, come Krishna, al fine di ristabilire la legge divina dei Veda.  Solo se la Legge vedica è preservata, il suo spirito proteggerà la vita delle diverse classi di persone.

Ashtavakra Samhita

Tu non appartieni ai bramini, ai guerrieri né ad altra casta, tu non sei in alcuno stadio di vita, non sei nulla di ciò che i tuoi occhi possono vedere. Sei privo di attaccamento e di forma, il testimone di tutto - [dunque] sii beato, ora. Giusto e ingiusto, piacere e dolore appartengono soltanto alla mente e non ti riguardano. Tu non sei l'agente o il fruitore delle conseguenze [dell'agire]; tu sei sempre libero.

Tu sei l'unico testimone di tutto, completamente libero. La causa della sofferenza è nel ritenere il testimone qualcosa di diverso da questo. Finché sei stato ingannato dal nero serpente dell'opinione di te stesso, hai creduto stoltamente: "io sono colui che agisce"; ora dissetati col nettare dell'evidenza: "io non sono colui che agisce" e da subito sii felice. Brucia la foresta dell'illusione con il fuoco della conoscenza.

Mandukya Karika di Gaudapada

Mi inchino al Brahman che pervade l'universo con l'effusione della conoscenza, che pervade ciò che è mobile e ciò che è immobile, Colui che osserva tutto quello che può essere conosciuto nel mondo grossolano [durante lo stato di veglia], Quello per cui si sperimenta tutto ciò che nasce dal desiderio ed è illuminato dall'intelletto [durante lo stato di sogno], e che riposa nella Sua beatitudine e fa che tutti noi vediamo attraverso la Sua Maya, quello che, nei termini di Maya, è il Quarto [Turiya] e il supremo, immortale e non nato.

Turiya, il Sé dell'universo - che osserva i frutti della virtù e del vizio nel mondo grossolano, che conosce gli oggetti sottili creati dalla Sua intelligenza e illuminati dalla Sua luce e che riassorbe tutto questo gradualmente in Sé, e che abbandonata ogni differenziazione diviene privo di attributi – che possa Egli accordarci la Sua protezione.

श्रुति Śrūti

Ishavasya Upanishad

Il volto della Verità è nascosto da una maschera d’oro; rimuovilo, oh Conoscitore, perché trionfi la verità, perché sia veduto. O Conoscitore, o Veggente, o Ordinatore, Sole Illuminante, o Padre delle creature, apri i tuoi raggi divini, trattieni il tuo ardore, affinché io possa conoscere il tuo volto benedetto. L'essere luminoso che abita in te, quello io sono.

Brhadaranyaka Upanishad

Om! L'aurora è il capo del cavallo sacrificale; il sole è il suo occhio, il vento il suo respiro, il fuoco onnipresente la sua bocca, l'anno il suo corpo. Il cielo è il dorso del cavallo sacrificale; l'atmosfera è la sua pancia, la terra il suo inguine; i punti cardinali sono i suoi fianchi, i punti intermedi le sue coste, le stagioni le sue membra, i mesi e le quindicine le sue giunture, i giorni e le notti le sue gambe, le costellazioni le sue ossa, le nubi le sue carni. La sabbia è il cibo che egli digerisce; i fiumi i suoi intestini, i monti il suo fegato e i suoi polmoni, le erbe e le piante la sua criniera; il sole che si leva è il davanti del suo corpo, dietro il sole che tramonta. Il lampo è il suo ringhio, il tuono lo scuotimento del suo corpo, la pioggia la sua orina, la voce della parola il suo nitrito.
Il giorno, che posa sull'oceano orientale, fu la coppa posta dinanzi al cavallo. La notte, che si trova sull'oceano occidentale, fu la coppa posta dietro al cavallo. Egli fu il Destriero che portò gli Dei, lo Stallone che portò i Gandharva, il Corsiero che portò i Demoni, e infine portò gli Uomini, come fa il Cavallo. Egli è di casa nell'oceano, dove si trova la sua stalla.

Mandukya Upanishad

 

Tutto è contenuto nella sillaba Om.

Il passato, il presente e il futuro non sono altro che la sillaba Om.

Quello che trascende la triade temporale, a sua volta, è l’Om.

Tutto è Brahman.

Il sé è Brahman.

Ecco il Signore supremo, l’onnisciente, il regolatore interno;

esso è il principio, l’origine e la fine di tutti gli esseri.

 

Sri Adi Shankara

Shankaracharya

Vivekacudamani

“Il gran gioiello della discriminazione”  
Istruzione sul discernimento spirituale

1. Rendo onore al sadguru Govinda la cui natura è suprema beatitudine, il quale si rivela mediante l’insegnamento vedantico che è di là dal linguaggio e dalla percezione mentale.
2. Per tutte le creature viventi non è agevole avere una nascita umana, in particolare ottenere un temperamento maschile, più difficile è perseguire il sentiero della devozione vedica, più difficile ancora è acquisire la perfetta conoscenza delle Sacre scritture. Altresì è raro discriminare tra il Sé e il non-Sé e realizzare l’identità del Sé con Brahman. Questo tipo di liberazione perfetta è il risultato di meriti accumulato nel corso di innumerevoli nascite.

Soundarya Lahari, L'Onda della Bellezza

"L'Assoluto è senza forma, ma l'energia è femminile. Quando l'energia prende forma, è chiamata Madre. Madre è la potenza in movimento, che solleva in onde le acque calme dell'Assoluto." Swami Vivekananda

"Non c'è Shiva senza Shakti o Shakti senza Shiva. I due, per loro stessa natura, sono uno. Ciascuno di essi è coscienza e beatitudine." Arthur Avalon

"Shakti è l'energia primordiale latente,  indifferenziata e auto-cosciente, che tutto pervade, che si manifesta per creare l'universo dopo il diluvio o la grande dissoluzione (Mahapralaya). Questa Shakti non è diversa dalla coscienza (Cit), il loro rapporto è di inseparabile unità (Avinabhava Sambandha) come tra il fuoco e il calore, un soggetto e le sue caratteristiche, la parola e significato ecc. In altre parole, uno non esiste senza l'altra." 

Advaita Sadhana

Antologia degli insegnamenti di
Sri Chandrasekharendra Saraswati Swamigal.
Commento del Vivekacudamani di Shankara. [PDF]

Con grande compassione il nostro Acharya Shankara Bhagavatpada ha tracciato il Saadhanaa-kramaM (il metodo della Sadhana) per raggiungere lo scopo dell’Advaita. Tutto ciò che ha fatto è in accordo con la Sruti (i Veda). Il corpo dei Veda ha una testa, le Upanisad. Esse sono chiamate ‘shruti-shira’, che significa ‘la testa della Sruti’. L’alto edificio della Sadhana costruito per noi dall’Acharya è fondato sulle Upanisad.
Egli ha tracciato un programma chiamato ‘Saadhana-chatushhTayaM’ (la Sadhana in quattro fasi). Nel suo monumentale commento al Brahma Sutra fin dall’inizio dice: 'nitya-anitya-vastu-vivekaH' si deve discriminare tra ciò che è reale e cioè che non è reale e nomina la quattro fasi del cammino.
Come il Sutra-Bashya è il culmine dei commenti scritturali, il Viveva-Chudamani è la massima espressione delle opere dette prakarana. In questo testo è data una perfetta definizione delle quattro fasi del Saadhana-chatushhTayaM.

La filosofia di Shankara

La filosofia di Shankara

Questo articolo esamina l'Advaita Vedanta classico di Shankaracharya e alcune questioni basilari di epistemologia e soteriologia. La presentazione rimarrà fedele a ciò che Shankara ha effettivamente detto ed eviterà interpretazioni speculative del suo pensiero, come ad esempio le forme dell'Advaita Vedanta che possono significativamente essere adattate in modo da soddisfare le esigenze degli occidentali moderni. Per la maggior parte ci si riferisce ai commenti di Shankara sul Brahma Sutra e Brhadaranyaka Upanishad, forse i suoi lavori più importanti, con alcuni riferimenti anche ai suoi altri scritti. 

Ascolto, riflessione e meditazione nella pratica dell'Advaita Vedanta

L'analisi mentale dell'Upadesha (insegnamento) attraverso la riflessione costante è l'esercizio detto Manana. Successivamente, quando non esiste più necessità e scopo per ulteriore analisi e discussione, si procede con NidhidhyAsana, che è lo stato in cui la mente è concentrata esclusivamente nell'identificazione con l'atman- tattva, su cui si è giunti a una perfetta chiarezza, e la mente non è scossa da alcun movimento.

La Mente e la funzione dei Mahavakya.

La mente, che è chiamata 'organo interno' (antaHkaraNam), è indicata con quattro nomi in base alle rispettive funzioni: manas, buddhi, chittam e ahamkAra. La funzione del pensiero è conosciuta come manas, che designa l'attività della mente ordinaria, come comportamento, esperienza di piacere, repulsione, reazione e relazione. Quando viene presa una decisione, appellandosi al senso etico, alla verità, al discernimento, è detta buddhi o intelletto. La funzione di memorizzare le esperienze e le informazioni, e di compiere operazioni formali, è chiamata chittam. Il senso dell'io è ahamkAra. 

Devi Mahatmya

 

Durante il Navaratri, in India è tradizione leggere il Devi Mahatmya, suddiviso per i nove giorni (notti) dedicati alla Madre divina. La lettura di questo testo è una pratica devozionale riconosciuta e ricca di insight significativi. Il testo è stato tradotto e curato dai miei studenti durante il Solstizio d'estate 2020, anno apocalittico e insieme straordinario, e quindi da me revisionato commentato durante il Navaratri, per condividere la lettura del testo, a protezione e conforto dei devoti della Madre e di tutti. Lo dedichiamo al Navaratri d'autunno per tutti coloro che cercheranno rifugio nella Sapienza in tempi di angoscia. Adesh Adesh. Jay Ma!

 

Introduzione:

I. ORIGINE E TRADIZIONE DEL CULTO DELLA MADRE DIVINA IN INDIA.

II. IL DEVI MAHATMYA.

Giorno 1: Capitolo I (Madhu kaitabha samhaaram)

Giorno 2: Capitoli II, III, IV (Mahishhasura samhaara)

Giorno 3: Capitoli V, VI (Dhuumralochana vadha)

Giorno 4: Capitolo VII (Chanda Munda vadha)

Giorno 5: Capitolo VIII (Rakta biija samhaara)

Giorno 6: Capitoli IX, X (Shumbha Nishumbha vadha)

Giorno 7: Capitolo XI (Lode di Narayani)

Giorno 8: Capitolo XII (Phalastuti)

Giorno 9: Capitolo XIII (Benedizione di Suratha e Samadhi)


Testo e commento del Devi Mahatmya in PDF

di Anna Corrias

ENNEADI III.4.3: SUL DEMONE GUARDIANO CHE CI E’ DATO IN SORTE

Nel vasto numero di trattati che compongono le Enneadi, alcuni di essi, grazie al loro contenuto filosofico, hanno incontrato subito il favore degli studiosi, diventando oggetto di analisi approfondite e di commenti minuziosi, mentre altri sono rimasti quasi del tutto inosservati.

A quest’ultima categoria appartiene il Trattato 15(Enneadi III.4.3) che Porfirio, incaricato di pubblicare gli scritti del maestro, intitolò: “Sul demone guardiano che ci è dato in sorte”. In esso, l’argomento principale è il demone che ogni anima riceve come guida della sua incarnazione terrestre. Tuttavia il Trattato 15 si presenta più come un’indagine sull’anima che sulla natura dei demoni. D’altra parte, il testo rappresenta la prosecuzione del Trattato 11 (Enneadi V.2), dove Plotino indaga il processo di generazione di tutti gli esseri che procedono dall’Uno. Come ha sottolineato Matthieu Guyot, la risposta alla domanda con cui termina il Trattato 11 – cos’è generato dalla facoltà vegetativa dell’anima? – deve essere cercata nel primo paragrafo del Trattato 15. Qui Plotino spiega che il potere di crescita “genera una cosa del tutto diversa da essa; poiché dopo di essa non c’è più vita, ma ciò che genera è senza vita” (Enneadi III.4.3 143). Inoltre, pur essendo principalmente l’anima vegetativa a prendersi cura di ciò che è inanimato (la materia), anche le altre funzioni psichiche vi concorrono. Infatti, egli dice, iniziando con una citazione di Platone “[l’anima] gira per tutto l’universo in diverse forme e in diversi tempi”, cioè come anima sensitiva, anima razionale ed anima vegetativa. Dunque, se trascorriamo la vita guidati dalla ragione, o dalla percezione oppure dai sensi, questo accadrà in misura ancora maggiore dopo la morte. A questo punto Plotino si domanda in quale tipo di essere andrà ad abitare l’anima dopo la separazione dal corpo, ovvero in seguito alla metempsicosi. Dal momento che negli scritti di Platone la metempsicosi era strettamente associata al tema dei demoni personali, Plotino, che si riteneva interprete del grande filosofo, introduce questa idea proprio discutendo il destino dell’anima oltre la morte. Coloro che coltivano al massimo grado la natura umana, egli sostiene, ridiventano uomini, mentre quelli che vivono sotto il mero controllo dei sensi si trasformano in animali, seguendo questa ripartizione: “Coloro che hanno amato la musica ma per tutto il resto erano rimasti puri si tramutano in uccelli canterini; i re che hanno governato stoltamente in aquile, se non hanno avuto altri vizi; gli astronomi che senza intelligenza hanno sempre alzato lo sguardo al cielo si trasformano in uccelli che volano in luoghi elevati”. Ma nessuno diventa un demone? Plotino risponde: “Colui che era tale anche quaggiù”. E chi, dunque, diventa un dio? “Certamente chi lo era quaggiù”. In questo passaggio alquanto oscuro, che inizia al terzo paragrafo del Tratato 15, Plotino introduce la sua idea di fondo, che fa del demone personale una delle facoltà dell’anima. Si tratta della facoltà immediatamente sovraordinata a quella che di solito agisce in noi, e che presiede alla nostra vita interiore senza giocare alcun ruolo attivo.

Infatti ciascuno è diretto [dopo la morte] dal principio attivo (τό ενεργησαν) che fu la sua guida e il suo comando anche qui. È questo, dunque, il demone che gli toccò in sorte quando egli visse? No, ma quello che sta prima del principio attivo; poiché esso domina senza agire sull’uomo, mentre il principio inferiore agisce.

Come risulta dal brano, per Plotino esistono due facoltà principali nella nostra anima: una è quella agente, chiamata il “principio attivo” (τό ενεργησαν), mentre l’altra domina il principio attivo senza intervenire. Quest’ultima secondo Plotino è il nostro demone personale. Perciò, se viviamo sotto il controllo dei sensi “il demone è il principio razionale; ma se viviamo secondo il principio razionale il demone è un principio superiore, che governa senza agire e permette al principio agente di operare” (Plotino, Enneadi, 149). L’idea del demone come pars animae derivava principalmente da tre passaggi di Platone: Timeo 90 A – C, dove si dichiara che l’anima ci è stata data da Dio in qualità di demone; Fedro 107D 6-9, dove il demone assegnato ad ogni uomo mentre era in vita si dice che lo porti al luogo del giudizio, e Repubblica X.617E, dove Platone afferma che noi dovremo scegliere il nostro demone. E’ necessario osservare che tutte le citazioni di Platone del Trattato 15provengono da questi tre dialoghi, il che conferma come la teoria plotiniana del demone tutelare dipenda dalla riflessione platonica e ne costituisca un commento.

Secondo Plotino, la vera natura del nostro sé – ciò che siamo e il modo in cui viviamo – è il risultato dell’influenza reciproca fra il principio agente, “τό ενεργησαν”, e la facoltà dominante immediatamente superiore, che egli vede come il nostro demone personale. È sempre τό ενεργησαν, il principio attivo, tuttavia, a stabilire quale demone guiderà la nostra esistenza, e non il contrario. Questo ovviamente non significa che τό ενεργησαν possa scacciare il proprio demone e decidere liberamente di muoversi su piani di realtà molto distanti, o affatto opposti, alla natura del suo dispositore. Il principio che presiede, o demone, aiuta infatti l’anima a preservare la sua natura di fondo, che scelse consapevolmente prima di scendere nel mondo della generazione. Tuttavia, questo accade senza che esso venga coinvolto nella vita dell’anima: “[un uomo nobile] è colui che agisce ispirato dalla sua parte migliore. Egli non sarebbe saggio se il suo demone guardiano non fosse al suo fianco” (Plotino Enneadi III.4.6 155). Pertanto è solo l’anima che agisce, mentre il demone guarda immobile. Così, possiamo dire che il nostro demone personale non è l’autore delle nostre azioni, ma piuttosto il loro guardiano. In qualità di guardiano o spirito tutelare, egli non vive la nostra vita ma la sorveglia. Allo stesso modo, egli non sceglie il nostro destino ma ci aiuta nella sua realizzazione.

Come Platone prima di lui, Plotino lega strettamente il demone personale al potere più alto dell’anima – così strettamente, che nel Trattato 15 il “demone che ci è toccato in sorte” corrisponde in realtà alla voce demonica che parla a Socrate nei vari dialoghi platonici. Il fatto che, per Plotino, il nostro demone personale sorvegli la nostra anima senza prendere parte alle sue azioni suggerisce che si identifichi con “quella sorta di voce”dell’Apologia, la quale “impediva a Socrate di compiere certe cose, senza indurlo all’azione” (31d3-6). Come mi propongo di dimostrare più avanti, il demone tutelare di Plotino è il principio intellettuale dell’anima, la scintilla divina dentro di noi che mantiene la nostra vita connessa con il regno del Nous o Intelletto, la seconda Ipostasi in ordine di importanza nella gerarchia neoplatonica dell’essere.

Una simile concezione differisce da quella del più importante interprete rinascimentale di Plotino, ossia Marsilio Ficino (1433-1499), platonico di fede cristiana, che tra il 1484 ed il 1490 tradusse e commentò le Enneadi. In Ficino l’enfasi sulla natura demonica della parte più elevata dell’anima resta largamente in secondo piano, niente più che un’allusione all’idea tradizionale del δαίμων come quintessenza radicale dell’individuo. Infatti, invece di identificare la natura demonica dell’anima con il suo sé più alto, Ficino la colloca di solito nella parte mediana, fra l’intelletto e i sensi. Si tratta del livello nel quale sia le rappresentazioni dei corpi esteriori che dei moti interni dell’anima vengono tradotte in immagini più o meno distinte. Sulla scorta di queste premesse, proverò a dimostrare la differenza tra il concetto di demonico in Ficino e la concezione plotiniana, che arriva spesso a indicare l’opposto. Ficino applicava per lo più il termine “demonico” all’attività dell’immaginazione, spesso responsabile del confine incerto fra realtà e irrealtà; in Plotino, invece, lo stesso lemma si riferiva alla capacità dell’anima di emanciparsi dalla subdola influenza delle immagini. In altre parole, secondo Ficino il demonico era un attributo dell’immaginazione, mentre per Plotino apparteneva all’intelletto.

I DEMONI DI MARSILIO FICINO

Plotino, come abbiamo detto, considerava il demone personale una facoltà dell’anima. Ficino, al contrario, inseriva lo spirito tutelare in una gerarchia di esseri soprannaturali, che partendo dai demoni contigui alla terra, giungeva fino a quelli che abitano i cieli. Sebbene Plotino ammettesse l’esistenza di demoni esterni composti d’aria, che popolerebbero le regioni vicine alla terra e sarebbero influenzati dalle preghiere degli uomini, li considerava filosoficamente insignificanti o per lo meno irrilevanti ai fini della sua indagine sull’anima umana. Per Plotino l’anima non aveva bisogno di alcuna natura intermedia fra essa ed il Nous, al quale rimane sempre congiunta, anche quando la sua parte inferiore e irrazionale si incarna. Per questa ragione Proclo nel suo commento all’Alcibiade platonico critica aspramente Plotino, responsabile a suo giudizio di aver degradato i demoni fino al livello di meri esseri umani, considerandoli nient’altro che parti della nostra anima.

Ficino, diversamente da Plotino ma in accordo con Proclo, si riferisce sempre, invece, ad una complessa demonologia, composta da numerosi gradi di esseri demonici. In effetti, nella prospettiva cosmologica del neoplatonismo rinascimentale, i demoni rappresentavano una necessaria componente dell’idea di plenitudine e di continuità dell’essere. La visione del quindicesimo secolo del mondo naturale si basava ancora sulla credenza in un’intrinseca propensione della natura a colmare gli spazi vuoti, in modo che l’universo fosse occupato da ogni forma di vita possibile. Questa concezione, ampiamente discussa da A.O.Lovejoy, che la chiamava “il principio di plenitudine”, deriva probabilmente da un passaggio platonico del Timeo dove il mondo è definito un intero che contiene ogni essere intellegibile, sia in atto che in potenza. (Platone, Timeo, 30D-31A). Più tardi, si fuse con uno dei principi cardine della filosofia neoplatonica, il principio della continuità dell’essere. Secondo il neoplatonismo infatti, la processione dai regni ontologici più alti fino ai più bassi avveniva senza interruzione: una natura intermedia, mediando fra il regno dell’essere e quello della generazione, impediva la presenza di un’improvvisa rottura nella continuità del cosmo. In questa cornice metafisica, l’assunto che i demoni occupino una porzione dell’universo sembra derivare logicamente dall’esistenza degli dei e degli esseri umani. I demoni sono così il tertium quid richiesto dal principio di plenitudine e dalla continuità: da un lato, essi rappresentano l’attualizzazione della natura intermedia che intercorre fra il divino e l’umano; dall’altro essi occupano fisicamente lo spazio fra le due opposte nature e rendono possibile l’incontro indiretto tra le dimensioni superiori e quelle inferiori. Perciò, secondo uno dei lavori che furono più influenti sulla demonologia rinascimentale, il De deo Socratis di Apuleio, l’esistenza dei demoni era la conseguenza razionale della suddivisione del cosmo in diverse regioni dell’essere. Apuleio, che scriveva nel secondo secolo, sosteneva che se ci fosse stata una regione dell’aria fra l’etere e la terra, ognuno dei quali aveva i propri abitanti, sarebbe stato poco plausibile ritenerla disabitata. Per questo motivo, una categoria di entità intermedie doveva necessariamente esistere fra la Luna e la Terra. Queste entità erano considerate a metà strada tra gli uomini e gli dei e si pensava partecipassero sia della natura umana che di quella divina: immortali alla stregua degli dei, tali creature erano anche capaci di provare emozioni e di soffrire, come gli esseri umani. Questo è il motivo per cui Ficino e molti suoi contemporanei credevano nella loro esistenza. Inoltre l’evidenza di una continua interrelazione fra i demoni e l’umanità era per loro incontrovertibile. Infatti, sebbene Ficino si mostri spesso ansioso di respingere la magia demonica, i demoni rivestono un ruolo di grande importanza nel suo pensiero.

Tornando alle rispettive visioni di Plotino e Ficino sui demoni personali, mentre Plotino vedeva il demone come un elemento attinente all’anima, che avrebbe perso il suo significato fuori dai confini della nostra vita mentale, Ficino stabilì una stretta connessione fra gli aspetti demonici della nostra anima e le forze esterne dotate di una dimensione cosmologica, descrivendo l’internalizzazione di queste forze come “demonica”. Di conseguenza era l’immaginazione, che Ficino considerava il canale per gli interventi degli esseri superiori, ad essere considerata la facoltà “demonica” par excellence. Inoltre il filosofo di Careggi tendeva generalmente a definire i demoni come riflessi di forze che influenzano l’anima dall’esterno.

L’anima umana, secondo Ficino, è il luogo dove le forze demoniche esteriori incontrano le facoltà della mente e si identificano con esse. I demoni di ogni grado, spiega Ficino, influenzano continuamente una delle facoltà della nostra anima. Questa influenza è così forte che rende possibile un legame ininterrotto fra il nostro universo psicologico interiore e il mondo esterno. Nella sua cosmologia, ognuna delle tre regioni dell’aria – composte rispettivamente da aria nebbiosa, pura e infuocata – è popolata di esseri demonici e corrisponde ai diversi livelli psicologici della nostra anima. La sfera più bassa, nebbiosa e del tutto piena d’acqua, corrisponde al potere immaginativo; il livello mediano, fatto di aria pura, alla ragione discorsiva, mentre lo strato superiore, di aria infuocata, alla comprensione intuitiva. I demoni rappresentano i canali di queste corrispondenze:

Se viviamo in accordo con l’immaginazione, il nostro demone esteriore sarà di natura aerea: esso è un demone che appartiene alle regioni più basse dell’aria e che, agendo sulla nostra immaginazione, stimola notevolmente la nostra anima per mezzo della sua stessa facoltà. Se, invece, viviamo sotto il dominio della ragione, il nostro demone, che appartiene alle regioni mediane, condurrà la ragione umana grazie alla sua attività analoga. Infine, se la nostra vita è retta dall’intelletto, un demone appartenente alla più alta regione dell’aria ci assiste mediante la sua facoltà conforme. I demoni agiscono non per libera scelta, ma per natura. (Ficino, “In Plotinum”, 1708)

I demoni di ciascun grado agiscono sull’anima umana in un modo particolare, che Ficino descrive usando diversi verbi per distinguere le loro azioni tipiche: i demoni della sfera inferiore eccitano (agitant) la nostra immaginazione, quelli di aria pura conducono (versant) la nostra ragione, mentre gli abitanti della sfera superiore ispirano (aspirant) la nostra facoltà intellettuale. Il lessico ficiniano mostra chiaramente che i demoni esteriori hanno un impatto sui differenti livelli della coscienza. Infatti incrementano l’esercizio dell’immaginazione e della ragione discorsiva, mentre non possono agire direttamente sulla comprensione intuitiva, a causa della sua autoevidenza, e riescono solo ad influenzarla in maniera surrettizia: “I demoni del grado più alto”, dice Ficino, “agiscono più segretamente e più silenziosamente, ravvivando in ogni momento l’attività dell’intelletto”(ibid.). L’enfasi che pone sulla differenza fra le varie influenze demoniche suggerisce che Ficino fosse preoccupato di tenere le facoltà più alte dell’anima libere dal potere dei demoni, in modo da preservare l’autonomia dell’attività intellettuale. Questo comporta anche che, fra le facoltà dell’anima, è l’immaginazione a risentire maggiormente dell’influenza demonica. Malgrado ciò, a parte queste difformità, i demoni intervengono pressappoco nel modo in cui le facoltà dell’anima si stimolano reciprocamente:

Nella nostra anima, il pensiero della luce intellettuale (intellectualis lucis excogitatio), per sua stessa natura, muove l’immaginazione a rappresentare la luce materiale. Analogamente l’immaginazione muove l’attività dei sensi quando dormiamo, e spesso, mentre siamo svegli, eccita naturalmente le nostre passioni. Al contrario, le passioni muovono i sensi, e i sensi l’immaginazione che, per sua natura, muove la ragione. In un modo simile, i demoni, per mezzo dei loro poteri, imprimono costantemente il frutto dei loro interventi alle nostre facoltà (daemones viribus suis nostras assidue pulsant).

Ibid.

L’analogia fra i moti interni dell’anima e il potente impatto dell’azione demonica sulle nostre facoltà dimostra che Ficino credeva in una stretta connessione fra i principi dell’anima e le alte intelligenze che abitano il mondo esterno. I demoni interiori, per lui, erano l’anello finale nella catena di influenze che dai corpi celesti discende fino alle regioni dell’aria. In altre parole, essi rappresentano le impronte lasciate sulla nostra anima dalle forze esterne che scorrono dalle regioni superiori:

Tieni a mente che le catene [dell’essere] esistono ovunque, dalle più alte alle più basse regioni del cosmo. Di conseguenza, ogni stella influenza, in una certa maniera, alcune classi di demoni, che sono i servitori delle stelle. Allo stesso modo, le anime sono influenzate dai demoni, ognuna dai rispettivi. In ogni regione, perciò, dimorano molti demoni, sia nel mondo sublunare che oltre: i demoni di Saturno sotto Saturno, i demoni di Giove sotto Giove e così via. Alcuni demoni di Saturno sono poi superiori ad altri demoni dello stesso cielo; e lo stesso accade per i demoni di Giove, proprio come succede fra gli uomini. Pertanto era il più eccellente fra i demoni dell’aria quello che diresse Plotino e Socrate – un demone che godeva della guida di uno tra i più eccellenti demoni eterei, condotto, a sua volta, da un demone celeste tra i più elevati.

Il brano dimostra che secondo Ficino i demoni personali, i quali presiedono alla vita degli uomini, non sono mai da identificare esclusivamente con le più alte facoltà dell’anima. Essi possono essere visti come forze psichiche che influenzano notevolmente e le scelte e la condotta di vita dell’anima. Nondimeno, il fatto che essi siano a loro volta condizionati dalle alte intelligenze prova che la loro tutela non dipende esclusivamente dalla natura essenziale dell’anima, ma che si vincola ad una dimensione cosmologica. Questa visione della doppia natura – esterna ed interna – del demone personale di ognuno di noi emerge chiaramente in un passaggio del suo Argomentum in Apologiam. Mentre discute della natura dello spirito tutelare di Socrate, Ficino infatti chiede: “Possiamo chiamare l’intelletto di Socrate demone?”; domanda alla quale risponde: “Certamente sì: Timeo sostiene che Dio ci assegna la parte più alta della nostra anima sotto forma di demone”(Ficino, “Argumentum in Apologiam”, 1387; Vedi Platone, Timeo, 90A-B). Il periodo sembra suggerire che il demone personale sia una presenza interiore assimilabile all’intelletto. Alcune righe dopo, tuttavia, quando Ficino afferma che il demone di Socrate non dovrebbe essere visto come una facoltà della sua anima, questa posizione viene respinta. Al contrario, prosegue Ficino, il demone del filosofo appartiene alla categoria dei demoni esterni, i quali fanno da intermediari fra gli esseri umani e gli dei:

Dal momento che l’uomo vive nelle tenebre dell’ignoranza ed è travagliato dalle numerose avversità della fortuna o distratto dalle sue lusinghe, non è capace di raggiungere il fine che Dio gli ha assegnato, senza il Suo continuo aiuto. Pertanto, [Platone] accetta l’idea che Dio ci abbia affidato i demoni più puri in qualità di guide per le nostre vite così che essi possano aiutarci in virtù di segni profetici, auspici, sogni, oracoli, voci, sacrifici ed ispirazioni di origine divina. Egli voleva che il demone familiare di Socrate fosse annoverato fra questi e che fosse ben distinto dalla mente di Socrate stesso (vult Socratis daemonem a mente socratica differentem).

(Ficino, “Argumentum in Apologiam”, 1388)

Così, dove Plotino tende ad identificare il demone dell’anima con la platonica “voce della coscienza”, Ficino si mostra maggiormente incline a mantenere i due termini separati. E’ possibile del resto provare che il demone di Socrate non fosse identico al più alto principio della sua anima. Infatti, mentre il demone stimolava Socrate all’agire e gli insegnava molte cose, il suo più alto principio spirituale non si rivolgeva mai a lui, né gli impartiva alcun tipo di insegnamento. Per tali ragioni, conclude Ficino, il demone deve essere qualcosa di esterno alla mente di Socrate (daemonem hunc aliquid esse praeter mentem) (ibid.). Nel suo Commento a Plotino, l’influenza esterna del demone personale, che sollecita l’anima pur rimanendo al di fuori di essa, è affermata in rapporto allo spirito tutelare di Plotino:

Ma se il demone di Plotino è del più alto grado, com’è possibile che lo guidi in una maniera a lui familiare? E come può il grande maestro avere accesso ai suoi raggi? Sebbene risieda a distanza, il demone può sempre imprimere un qualche significato sotto forma di parole, emettendo raggi percepibili (sensuales radii). Per mezzo di tali impressioni, il demone è in grado di vedere lo spirito dell’uomo e, osservandolo, di comunicare e produrre significati come se stesse parlando.

(Ficino, “In Plotinum”, 1708)

Il demone personale, per Ficino, esiste fuori dall’anima e, al fine di esercitare la sua azione sugli esseri umani, ha bisogno di mezzi esterni come i raggi di luce che possono trasmettere la loro influenza a grande distanza. In questo passo emerge chiaramente la differenza fra la concezione del demone tutelare, per così dire, “cosmologica” di Ficino e quella più spirituale di Plotino. Tuttavia questa difformità non risulta sempre così ben marcata, poiché il demone secondo Plotino “non è interamente all’esterno, ma solo nel senso che non è legato a noi e non è attivo in noi ma in ciò che è nostro”. (Enneadi III.4.5, 155). Ficino, d’altra parte, considera il demone di EnneadiIII 4.3 come l’interiorizzazione del demone esteriore, che agisce sulla nostra anima dall’alto e trasmette ad essa l’influenza dei corpi celesti. Da ciò deriva che la facoltà demonica par excellence non sia la ragione o l’intelletto, come per Plotino, ma piuttosto la nostra immaginazione, la quale trasforma i corpi esterni in rappresentazioni interne e che, posta sulla linea di confine fra diversi livelli di realtà, serve come porta d’ingresso agli interventi delle intelligenze superiori.

SPECCHI DELLA REALTA’: LA NATURA DEMONICA DELLA MATERIA E DELL’IMMAGINAZIONE

Nelle Enneadi, Plotino collega l’immaginazione con quell’entità che, da un punto di vista platonico, rappresenta l’assoluta negazione dell’essere e la fonte di ogni illusione: la materia stessa. Secondo Plotino, infatti, il processo di creazione delle apparenze, che chiama φάντασις, avviene nella materia. Come uno specchio, la materia riflette solo le immagini e non la vera natura delle cose. Da un punto di vista metafisico, tuttavia, la materia è ancor più lontana dalla realtà che uno specchio giacché se le cose che appaiono in sogno, nell’acqua o in uno specchio sono dello stesso genere di quelle che rappresentano, quanto appare nella materia si rivela diverso da ciò che produce la sua immagine. (Plotino, Enneadi III 6.7). Le immagini nella materia non sono altro che “fantasmi dentro fantasmi”, “ombre che trapassano in ombre senza forma” (ibid.). Per Plotino, quindi, la materia è un’illimitata fonte di realtà immaginarie e trova il suo completamento non nell’essere reale, ma nell’abile processo di creazione delle immagini che egli definisce: “la conoscenza di ciò che appare” (η σοφία τού φαντάσματος) (ibid.).

La connessione fra materia e facoltà immaginativa–entrambi superfici che, al pari degli specchi, riflettono gli esseri ma che non sono esseri–fu senz’altro apprezzata da Ficino. Il filosofo infatti, nell’introduzione al suo Commento sul Sofista, ricorda al lettore che Platone “ci ha insegnato che la vera essenza si accorda con l’incorporeo, ma l’essenza immaginaria con il corporeo” (Ficino, “In Platonis Sophistam”, 218). Inoltre, nel suo Commento a Plotino, spiega: “Certamente la materia, dal momento che è malvagia ed è quindi la cosa più distante dal Bene stesso, non desidera il Bene come qualcosa che rivendica naturalmente per sé, piuttosto al modo di una veste immaginaria, indossata per errore”. Dunque, se su un piano metafisico è la materia che, come in uno specchio, riflette l’apparenza dell’essere, nell’anima umana è l’immaginazione che riflette la vera realtà, ossia le forme intellettuali. L’immaginazione, la facoltà che trasforma i pensieri in immagini, rende capace l’anima di percepire le rappresentazioni visive delle cognizioni dell’intelletto. In Enneadi I.4.10 Plotino descrive l’immaginazione, o φαντασία, come una superficie che è capace di riprodurre le immagini del pensiero. E’ significativo che, commentando questo passaggio, Ficino metta particolare enfasi sull’idea dell’immaginazione simile ad uno specchio:

Di certo, come l’occhio è contenuto nel viso, così la ragione lo è nell’intelletto. E così come l’occhio non vede il viso e non percepisce il suo movimento – eccetto quando i raggi lineari emanati dal volto sono diretti verso uno specchio posto davanti a noi e da lì si riflettono, grazie ad un angolo simile, verso l’occhio, e lo specchio riporta l’immagine finché riesce a trattenerla– allo stesso modo, la ragione, come l’occhio, non vede l’intelletto né percepisce il suo movimento, sebbene sia sempre attivo, a meno che la sua influenza non agisca in qualche misura sull’immaginazione, rivolgendosi altrove ma tornando per quella via. Infatti, per mezzo di un tale procedimento, l’immagine di una superiore attività ritorna dall’immaginazione alla ragione.

(Ficino, “In Plotinum”, 1569)

Sia la materia che l’immaginazione, per Ficino, sono specchi deformanti che riflettono immagini fantastiche. Esse possiedono la capacità di sfumare i limiti fra reale ed irreale e di ingannare l’anima usando quella “conoscenza di ciò che appare” di cui Plotino parla in Enneadi III.4.6. Condividono questa abilità con i demoni, i quali erano considerati i più grandi produttori di immagini. È importante tuttavia tenere a mente che per entrambi i filosofi l’immaginazione non rappresenta soltanto uno specchio che distorce la realtà e inganna le anime, ma anche un importante strumento epistemico. Infatti, elaborando sensazioni e pensieri in immagini, essa diviene la facoltà grazie alla quale l’anima prende consapevolezza sia della silenziosa vita del corpo che dell’altrimenti inaccessibile dominio del Nous. Più in generale, Ficino segue Plotino considerando la conversione del corpo e della vita intellettuale in immagini come la conditio sine qua non dell’apprendimento (αντίληψις, tradotto da Ficino come animadversio). Riguardo gli aspetti positivi dell’immaginazione demonica, il De vita coelitus comparanda è certamente un testo molto importante, che ci aiuta a comprendere il pensiero di Ficino riguardo alle relazioni fra le immagini e gli esseri di natura più elevata. In questo trattato, l’immaginazione è presentata come il potere dell’anima che permette agli astri di trasmettere la loro influenza celeste sugli esseri umani con l’aiuto di demoni planetari benevoli; il loro benefico intervento si ottiene mediante pratiche associate alla magia naturale. Come ha precisato Michael Allen, Ficino considerava l’immaginazione demonica in due sensi, in sé stessa e come strumento per le operazioni con le intelligenze superiori (Icastes, 175).

Nel primo senso, le immagini si rivelano demoniche per loro stessa natura e costituiscono una fonte di inganno per l’anima. Poiché esse riflettono sia la realtà (la realtà interna dell’anima e le sue rappresentazioni) sia l’irrealtà (le apparenze e le illusioni irreali di cui il mondo esterno risulta composto, secondo la prospettiva platonica), si credeva che potessero ingannare l’anima facendogli scambiare l’una per l’altra. Come Ficino scrive nella Teologia Platonica:

Per la maggior parte la fantasia, che determina il modo in cui viviamo le nostre vite, è così intensa da contemplare con affilata attenzione le proprie immagini in sé stessa. Queste immagini così intensamente figurate abbagliano il senso comune, che secondo l’uso platonico chiamiamo immaginazione, e si propagano ai sensi inferiori e in direzione dello spirito. E’ pertanto consueto credere che l’immagine che si riflette sui sensi e sullo spirito sia reale. Infatti gli uomini, da svegli, dicono di vedere uno di loro quando si rivolgono all’immagine di un uomo che si presenta ai loro sensi. Allo stesso modo, nel sonno, affermano di vedere un uomo quando la sua figura si irradia dalla fantasia e passando attraverso l’immaginazione perviene ai sensi e allo spirito.

(ibid. XIII.2, in Ficino, Teurgia platonica, 151)

Nella sua epitome del De mysteriis di Giamblico, Ficino descrive un fantasma come un’immagine (simulachrum) che non contiene l’essenza dell’oggetto dal quale è emessa. Un phantasma, come una forma che appare in uno specchio, attira verso il basso l’anima con l’inganno e la illude, pretendendo di essere qualcosa di cui ha solo l’apparenza ma non l’essenza. Questa è la ragione per cui “i facitori di immagini sono spesso posseduti ed ingannati da demoni malvagi”. Nella tradizione platonica, l’idea che le immagini siano i prodotti dell’influsso demonico sugli uomini risale al Sofista. In questo dialogo, è lo straniero di Elea a illustrare il punto. “Dovremmo dire, in accordo con la sentenza platonica del Sofista, che le immagini visibili consistono in certe sostanze di alcuni simulachra e vengono create per mezzo di artifici demonici”, come scrive Ficino nella sua traduzione del dodicesimo libro del Commento sulla Repubblica di Proclo. Il sofista, definito da Platone un creatore di immagini (eidolopoios), era ritenuto simile ad un impostore che fabbricava simulacri mescolando insieme essere e non essere. La sua grande maestria nell’inganno era il più alto esempio dell’abilità di confondere l’anima per mezzo di immagini false. Per questa ragione è proprio nel ficiniano Commento al Sofista, come mostra Allen nel suo Icastes, che il nesso fra immaginazione e natura demonica si rende più evidente. Qui Ficino spiega che, sul piano metafisico, i demoni e le immagini sono complementari: “Dal momento che i demoni seguono gli dei, le imitazioni delle cose, copie delle prime opere divine, devono sembrare, per così dire, dei trucchi demonici” (Ficino, Commento al Sofista, in Allen, Icastes, 270). Perciò, “il prodotto della nostra immaginazione è, in un certo senso, un demone” (ibid.).

Tuttavia, come abbiamo precisato, c’era un altro senso per cui l’immaginazione era considerata demonica: essa era lo strumento mediante il quale si riteneva che i demoni prendessero possesso dell’anima. In questo modo le intelligenze celesti erano in grado di usare le loro potenti immagini per influenzare l’immaginazione dell’uomo. Dato poi che questa facoltà era ritenuta abbastanza flessibile da potersi estendere dalle regioni più basse della vita intellettiva fino al regno della percezione sensoriale e, di conseguenza, capace di creare interazioni fra i diversi livelli dell’essere, era particolarmente esposta ad essere attirata dai demoni che si credeva abitassero nelle regioni intermedie del cosmo. Fra i vari filosofi neoplatonici posteriori a Plotino, fu Porfirio a sottolineare con un certo risalto il legame fra la natura demonica e il potere dell’immaginazione. In Astinenza dagli animali, ad esempio, egli scrisse che i demoni erano “abbondanti in ogni tipo di impressione e in grado di ingannare compiendo prodigi”(II,42, 72). Inoltre Psello, il quale, come dice Ficino, proprio intorno alla natura dei demoni aveva riconciliato le posizioni dei platonici con quelle dei cristiani, nel suo De operazione daemonum(tradotto da Ficino nel 1497) affermava che “i demoni fatti di fuoco ed aria hanno un’immaginazione portata a diversificarsi e sono in grado di infondersi in qualsiasi specie immaginativa scelgano” (537-9). L’idea che i demoni usassero sia la loro immaginazione che quella degli esseri umani per influenzare le anime era accolta da Ficino, anche se con estrema cautela. Egli parla di questo argomento nel suo Commento a Plotino:

A volte, la stessa potente facoltà immaginativa, soltanto per mezzo della sua azione, è in grado di affliggere immediatamente il corpo nelle sue qualità e movimenti. Addirittura, (come affermano i teologi), può accadere che i demoni, grazie alla loro mera immaginazione, senza alcun strumento o azione di sorta, creino dappertutto oggetti meravigliosi con la velocità che desiderano, emettendo potenti raggi. Spesso infatti, a causa del moto della loro immaginazione, rivelano forme esteriormente meravigliose a coloro che sono in grado di percepirle.

(Ficino, “In Plotinum”, 1688)

A questo punto è importante sottolineare che nella tradizione neoplatonica l’immaginazione era spesso identificata con il veicolo dell’anima, chiamato in greco ochêma. Si trattava di un corpo astrale, non composto da materia ma nemmeno immateriale, che l’anima acquisiva durante la sua discesa attraverso le sfere celesti. Porfirio, ad esempio, aveva affermato che come i demoni possono cambiare la loro apparenza secondo le forme della loro immaginazione, così l’anima, per mezzo del proprio immaginare, può dare una forma differente al suo corpo spirituale (Ad Gaurum, VI, 6-11 e XI.3; De Abstinentia, II.42). Sinesio descrisse il veicolo dell’anima come il primo strumento dell’immaginazione, ovvero la superficie pneumatica sulla quale le forme immaginative erano impresse e trattenute (De somniis, VII). Psello, infine, aveva parlato di un’analogia presente in natura fra i corpi spirituali dei demoni e i veicoli delle nostre anime (De operatione daemonum, 323-32). Ficino fu fortemente influenzato da questa tradizione, e certamente credette al legame tra i demoni esterni, il veicolo dell’anima e la facoltà immaginativa.

Eppure, come abbiamo visto, anche la ragione e l’intelletto, sebbene in minor grado, possono finire sotto l’influenza dei demoni. Tuttavia, mentre queste alte facoltà dell’anima sono influenzate dai demoni superiori che operano con discrezione senza esercitare nessun potere reale, l’immaginazione è vulnerabile ai giochi di alcuni fra i demoni più scaltri, quelli che abitano nelle regioni nebbiose dell’atmosfera e che, secondo Ficino, tengono prigionieri i loro adoratori attraverso la profezia e l’inganno (“In Plotinum”, 1614). Un ulteriore aspetto della natura “demonica” dell’immaginazione, pertanto, era la sua suscettibilità all’intervento dei “più demonici” fra i demoni, che distorcono la nostra attitudine a riflettere la realtà esterna invadendo la nostra anima con le forme del loro perverso immaginare.

Nel suo Commento al Timeo, Ficino sostiene che i demoni che abitano la sfera dell’aria umida, secondo la teologia pagana e la scuola platonica, sono selvaggi (bruti) o semi-selvaggi e dotati di immaginazioni molto potenti e acute (“In Plotinum”, 1469):

Forse, proprio come ci sono solo due specie di animali sulla terra – la razionale e l’irrazionale –così accade nell’elemento liquido, poiché Orfeo e i poeti celebrano le divinità acquatiche. Si pensa che probabilmente nella regione dell’aria mescolata, assieme ai demoni dotati di discernimento, ve ne sia anche un genere semi-selvaggio, fornito di solito di una facoltà immaginativa molto potente, che scuote le menti alla stessa maniera dei corpi in contatto tra loro. Se tale ipotesi è in qualche modo verosimile, porremo questi demoni nella stessa categoria delle persone che non interagiscono con noi in modo normale, alla stregua di coloro che impressionano i bambini e i folli con giochi e trucchi, distraendoli con cose puerili e spaventandoli con apparizioni terribili.

(ibid.)

I demoni che appartengono alla sfera dell’aria nebbiosa sono dotati di una potente immaginazione che, in questo caso, non indica l’abilità di produrre rappresentazioni di pensieri o di riflettere l’attività intellettuale del Nous, ma piuttosto si riferisce al potere inconscio che governa i processi corporei (come la crescita organica o l’attività motoria), ed anche le passioni e gli appetiti irrazionali. Per comprendere ciò, abbiamo bisogno di ricordare che, per Ficino, l’attività dell’immaginazione demonica si manifesta non soltanto nell’elaborazione di immagini ma anche nell’anima, nel languori appena percepibili, come il senso di vuoto allo stomaco o lo stimolo sessuale che avvertiamo nel dormiveglia. Queste sensazioni operano a un livello che egli definisce “immaginazione vegetativa” (vegetalis imaginatio), che rappresenta una sorta di ramificazione del potere vitale attraverso cui l’anima dà vita al corpo e che coinvolge le sensazioni prima che siano trasformate in rappresentazioni visive, ossia prima che diventino immagini. Ficino descrive questo livello vegetativo come una percezione cieca che agisce senza immaginare (agens neququam imaginando, “In Plotinum”, 1718), al pari di un sonno senza sogni. Spesso capita, egli spiega, che durante una notte di sonno agitato, l’anima faccia esperienza di certi desideri – mangiare, ad esempio, o bere – senza tuttavia vedere nei sogni immagini di queste sensazioni poiché esse non hanno ancora raggiunto lo stadio nel quale possono essere rappresentate. L’attività dell’immaginazione vegetativa è simile a questo tipo di sonno senza sogni, perché essa percepisce le sensazioni dietro una coltre oscura, senza trasformare le sensazioni in immagini.

Commentando Enneadi II.3.9, in cui Plotino fa riferimento al “possente demone” del Simposio platonico, Ficino si domanda quale tipo di passioni sono “tipiche dei demoni” e dà la seguente risposta:

Si pensi ad un uomo saggio che sia costantemente assorbito dalla contemplazione delle cose divine. Nondimeno, mentre contempla tali elevate realtà, nella sua anima vegetativa sorge il bisogno di trovare del nutrimento per il suo corpo; a volte lo stimolo della fame striscia nel suo stomaco e il naturale desiderio di alimentarsi lo istiga. Ma, nel frattempo, la facoltà razionali della sua anima sono dirette verso entità separate e non fanno caso a passioni di questo genere. Anche l’immaginazione avverte a stento i sensi, come se fosse offuscata. Questo è all’incirca cosa avviene nell’anima, allorché, durante un sonno privo di sogni, queste stesse passioni vengono eccitate. E’ pertanto allo stesso modo che agiscono le passioni demoniche durante la meditazione delle realtà celesti.

(Ficino, “In Plotinum”, 1631)

Il vincolo fra le passioni demoniche ed il sonno senza sogni suggerisce che, per Ficino, la qualità “demonica” non possedeva la chiarezza e l’auto-evidenza che caratterizzava la nozione plotiniana del δαίμων. Anzi, Ficino considerava questo stato come più opaco ed ambiguo delle stesse immagini che incontriamo nei sogni. Non era quindi la capacità dell’anima di applicare l’intuizione intellettuale ad essere “demonica”, come in Plotino, piuttosto il suo potere di cancellare i confini fra il reale e l’irreale.

Per una migliore comprensione della differenza fra le posizioni di Plotino e Ficino intorno alla natura del demone interiore, sarà utile prendere in esame un passaggio delle Enneadi dove l’immaginazione è descritta come una forza che prova invano ad oscurare l’anima:

Ora, nell’anima l’immaginazione è un fantasma mentre la natura dell’anima non è affatto fantasmatica; e sebbene l’immaginazione in molti modi sembri condurre l’anima ovunque voglia, nondimeno l’anima la usa come se fosse materia o qualcosa di simile e certamente l’immaginazione non lo nasconde dal momento che è spesso espulsa dalle attività che sorgono dall’anima e, anche se giunge a sviluppare tutto il suo potere immaginativo, essa non riesce a nascondere completamente l’anima e fare in modo che appaia essere ella stessa un riflesso, poiché l’anima ha in questo attività e principi razionali che sono in opposizione e con cui allontana le cose che la attaccano.

(Ficino, Enneadi, 273)

Per Plotino, la facoltà demonica dell’anima è il principio razionale qui descritto, che si oppone all’invasione delle immagini. Il sé superiore, resistendo al fascino delle immagini visibili, realizza una funzione che nel pensiero di Plotino è direttamente connessa al ruolo tutelare del δαίμων: rendere capace l’anima di trascendere il mondo esterno composto di apparenze.

Ficino, al contrario, identifica il potere demonico dell’anima non con la sua abilità di controllare e di resistere all’influenza delle immagini, ma con la sua incapacità di respingerle. È precisamente a causa del fatto che l’immaginazione permette alle immagini e alle ombre di prendere possesso dell’anima che essa viene riconosciuta come l’unica facoltà che agisce “demonicamente”. La differenza fra il modo in cui Plotino e Ficino intendono la natura dei demoni può essere in parte spiegata dalla degradazione del concetto di demone nella storia del platonismo. Per Plotino, come abbiamo visto, il termine δαίμων denota un potere o un’ispirazione divini – come il latino genius– interne all’anima di una persona. Più tardi, quando l’interesse per la teurgia divenne prominente fra i filosofi platonici, il δαίμων non fu più visto come la parte più elevata della nostra anima, ma come un’entità divina che poteva essere invocata attraverso specifici riti teurgici. Giamblico, ad esempio, scriveva che “quando il demone personale arriva ad affiancare una persona, gli rivela la pratica di devozione che gli si confà, ed anche il suo nome, impartendo inoltre istruzioni sul modo in cui deve essere evocato” (Sui Misteri di Egizi, Caldei e Assiri, IX. 9,341). Autori più tardi, come Ermia e Proclo, che abbiamo già citato, respinsero la concezione di Plotino del δαίμων, che ne fa un potere della nostra anima, e innalzarono il demone personale ad un più elevato grado ontologico, quello di un essere divino. Per di più, oltre ad essere legato alla teurgia, il demone personale venne associato alle pratica astrologica, dal momento che la natura del nostro spirito guardiano era fatta dipendere dalla configurazione delle stelle al momento della nostra nascita.

Ficino subì senz’altro il fascino di teorie simili, poiché credeva fermamente nell’influenza combinata di astri e demoni sulla nostra anima e mostrava un vivo interesse per la teurgia. L’idea, posteriore a Plotino, che i demoni dimorassero fra le stelle e le anime razionali, operando sugli esseri umani in qualità di mediatori dell’influenza celeste, emerge chiaramente nel suo commento ad Enneadi III.4.3. Il concetto teurgico dei demoni come strumenti di grande efficacia nella trasmissione delle simpatie cosmiche ebbe un importante impatto sulla demonologia ficiniana, assieme alla dottrina cristiana che faceva di questi esseri una categoria di entità separate. Nel suo duplice ruolo di filosofo cristiano e sacerdote, Ficino credeva che i buoni demoni mediassero fra Dio e gli esseri umani, e li riteneva di primaria importanza nel sistema di interazioni fra i cieli e la terra. Come Michael Allen ha chiarito, Ficino associava i demoni buoni ai messaggeri angelici del Cristianesimo anche se, secondo lui, essi non “furono mai pienamente cristianizzati” e il platonismo cristiano del Rinascimento “rimase convinto che i demoni e qualsiasi demonologia fossero cose prettamente pagane” (“Socrates and the daemonic voice of conscience”, 142-3). La credenza cristiana che sia gli intermediari malvagi che i buoni esistessero fra Dio e gli uomini è ben riconoscibile nelle teorie di Ficino sul nostro demone guardiano. Come abbiamo avuto modo di vedere, egli oscillava fra l’idea di un essere soprannaturale appartenente ad una categoria ontologica separata e la nozione di influenze celesti assimilate dalla nostra anima.

Nel sistema di Ficino, così come per Plotino, il demone guardiano di Enneadi III.4.3 era contemporaneamente sia interno che esteriore all’anima. Entrambi i filosofi, infatti, interpretavano il demone personale in linea con la visione neoplatonica dell’unità della coscienza. Questa unità, sia per Plotino che per Ficino, era garantita dall’immaginazione la quale, trasformando costantemente le sensazioni in entità mentali e rendendo visibile il contenuto dei nostri pensieri, fornisce all’anima la consapevolezza del corpo e dell’intelletto. Diversamente da Plotino, tuttavia, Ficino riteneva che la capacità dell’immaginazione di controllare la metamorfosi interna delle immagini a partire dal piano vegetativo, fino alle soglie dell’intelletto, fosse la quintessenza della facoltà demonica. Per lui, in definitiva, il demone a cui l’anima viene legata quando dal regno del Nous scende nel mondo della generazione, non è la ragione o l’intelletto, come avviene per Plotino, ma la facoltà immaginativa.

Submitted 29 Feruary 2012, recise 20 May and 28 August, accepted 24 October
The Warburg Institute

Traduzione di Pierpaolo Cervigni

 

 

La Tradizione degli Yogi

GORAKHNATH E LA TRADIZIONE NATH

 

Adya (il principio maschile primordiale) e Adyā (il principio femminile primordiale) erano i due antichi dei che diedero inizio alla creazione. Successivamente nacquero quattro Siddha, dopo di loro nacque una ragazza, il cui nome era Gaurī. Per ordine di Adya, Śiva la sposò e discese sulla Terra. I nomi di quei quattro Siddha erano Mīnnāth (Matsyendranath), Gorakṣnath, Hāḍiphā (Jalendharnath) e Kānphā. Dal momento in cui furono creati, restarono assorti dalla pratica dello yoga e si sostenevano solo di aria. Goraksh Nath era al servizio di Mīn-nāth e Kanphanath era di Hāḍipā. 

dal Navanath Katha

Goraksha Sataka

La Centuria dei Versi di Gorakhnath

Om! Incomincia la centuria di Goraksha sull'Hata Yoga!
1. Mi inchino al venerabile Guru Matsyendranath, supremo bene, incarnazione della gioia; la cui semplice prossimità trasforma il corpo in pura coscienza e beatitudine.
2. Colui che, in virtù della paatica dell'adhdrbandha e delle altre tecniche posturali, illuminato dalla luce della coscienza, è lodato come Yogi e quale essenza e misura del tempo, degli yuga e dei kalpa, Colui in cui il Signore, oceano di conoscenza e beatitudine, ha preso forma, Colui che è superiore a tutti gli attributi qualitativi, manifesti e immanifesti, questi, Sri Minanath, io saluto devotamente
3. Avendo salutato con devozione il proprio Guru, Gorakhnath descrive la suprema conoscenza, ricercata dagli yogi, che conduce al Bene supremo.
4. Per il bene degli Yogi, Goraksa espone la Centuria di versi la cui conoscenza è il percorso sicuro verso lo stato supremo.
5. Questa è la scala che porta alla liberazione, per cui la mente è distolta dalle gioie dei sensi e si rivolge allo spirito, e con cui si sfugge la morte.

 

SIṢYĀ DARSAN

OṂ. Dall'eterno, l'Om emerge. Dall'Om, lo spazio [ākāś] emerge. Dallo spazio, l'aria emerge. Dall'aria, il fuoco emerge. Dal fuoco, l'acqua emerge. Dall'acqua, la terra emerge. La forma della terra è la bellezza della Dea. La forma dell'acqua è l'aspetto di Brahma. La forma del fuoco è la maya di Vishnu. La forma dell'aria è il corpo di Dio. La forma dello spazio è l'ombra del Suono [Nad] La forma del Suono emerge dall'eterno.

ABHAI MĀĀTRĀ JOG

OM. Il lignaggio dei Perfetti, la via della saggezza, la vera terra, la postura naturale e il respiro, la medicina filosofale del respiro yogico, la grotta dell'autocontrollo, l'astinenza come perizoma, il decoro come cintura di castità, l'unità trascendente come scialle di meditazione, l'unione, l'Uddhiana Bandh, il vero mudra, la virtù come abito, il perdono come cappello, l'ardore come supporto, l'introspezione come sacca delle elemosine, la pazienza come bastone, la discriminazione come spada, la pratica ascetica come ruota, il chakra radice come ciotola per l'acqua, la mente come acqua, l'elisir come cibo, la compassione, la meditazione del segreto, il discernimento come libro, la lingua come alchimia...

 

Adesh Adesh

Quando due Yogi Nath si incontrano, usano la parla आदेश (Ādeśa)per rivolgersi l'un l'altro il saluto. Nel dizionario Sanscrito o Hindi troveremo che la parola ādeś si traduce come ordine, legge, comando o istruzione, ma i Nath associano a essa un significato molto più ampio.

La parola ādeśa è composta di due parti: आदः (ādaḥ), e ईश (īśa), dunque ādaḥ + īśa = Ādeśa. आदः (ādaḥ) significa ricevere o essere legati a, mentre ईश (īśa) significa signore, padrone, ed è anche uno dei nomi di Shiva; inoltre esprime anche eccellenza, abilità, potere. I Nath ritengono che fu Shiva stesso il fondatore del loro ordine, con il nome di आदिनाथ (Ādi Nātha), "Il Primo Nath", "Il Maestro Primordiale", che è unanimemente accettato dagli Yogi come Adi Guru (Primo Guru) e la Divinità sovrana del Nath Sampradaya. E' detto anche Yogeshvara (il Signore dello Yoga) l'ideale ascetico stesso, signore di austerità e penitenza, Signore degli spiriti e delle anime. Nel senso più ampio, Adi Nath si può tradurre come "il Signore Primordiale", nel suo ruolo di Signore di tutto il creato.

GORAKSHA VACANA SAMGRAHA.

Le istruzioni di Gorakhnath. 

1. Alcune persone desiderano la non dualità, altri desiderano la dualità. Ma non troveranno la Realtà, che è sempre e ovunque la stessa, diversa dalla dualità e dalla non dualità.
2. Se il Dio (Shiva) a cui tutto va è immutabile, pieno, indiviso, allora oh! La maya, la grande illusione, le false nozioni di dualità e non dualità.
3. Si dice che il supremo Brahman sia libero dall'esistenza e dalla non esistenza, libero da distruzione e generazione, al di là di ogni concezione.
4. Coloro che conoscono la Realtà lo conoscono come infinito spazio, vera conoscenza e beatitudine, ignoto al ragionamento e all'esempio, al di là della mente, dell'intelletto e delle altre funzioni.
5. Shakti è inerente a Shiva, Shiva è inerente a Shakti. Si deve riconoscere che non c'è differenza tra essi, come tra la Luna e la sua luce.
6. Quindi Shiva senza Shakti non potrebbe fare nulla. Ma dacché è unito al suo potere (shakti), è causa di tutte le forme sensibili.
7. Dotato di infinita Shakti, Shiva perpetua il manifestarsi di tutte le forme, eppure rimane uno solo, senza secondo, nella sua propria forma.

Adi Nath, Matsyendra Nath e Goraksh Nath. L'origine della tradizione Nath.

Da tempo l'India è riconosciuta come un importante centro della vita spirituale, che ha esercitato grande influenza sullo sviluppo di tutta la civiltà umana. La storia del paese è stata sempre segnata dalle storie di diversi grandi santi, Siddha e MahaYogi, che appaiono di volta in volta a guidare l'umanità verso ideali più alti, grazie all'esempio delle loro vite illustri.

Alcuni aspetti degli insegnamenti dei Nath

La posizione metafisica dei Nath non è monista né dualista. E' trascendente nel più vero senso della parola. Essi parlano dell'Assoluto (Nath), al di là delle opposizioni implicite nei concetti di Saguna e Nirguna, o di Sakara e Nirakara. Perciò, per essi il fine supremo della vita è realizzare se stessi come Nath e restare eternamente radicati al di là del mondo delle relazioni. La via per conquistare tale realizzazione è detta essere lo yoga, su cui investono molta energia. Sostengono che la Perfezione non si posa raggiungere con altri mezzi, se non con il sostegno della disciplina dello yoga.

I Siddha e la Via del Rasa

Un Siddha è qualcuno che si dice abbia raggiunto poteri sovrumani (Siddhi) o un Jivanmukthi, un liberato in vita. Il termine potrebbe anche essere tradotto come il raggiungimento della perfezione o dell'immortalità. Tale Siddha dotato di un corpo divino (divyadeha) è Shiva stesso (Maheshvara Siddha). È il perfetto, che ha superato le barriere del tempo, dello spazio e dei limiti umani. Un Siddha nella sua forma idealizzata è liberato da tutti i desideri (anyābhilāṣitā-śūnyam), colui che ha raggiunto un'identità impeccabile con la Realtà suprema.

Gorakh Bani

 

Il Gorakh Bani è un poema sapienziale di epoca medievale attribuito a Gorakhnath, composto di 275 strofe, più una serie di composizioni aggiuntive, dette Pada.
E’ un testo dei più misteriosi e affascinanti. E’ il Sabad, la parola spontanea dell’illuminato, lontana dai canoni scolastici vedantini e dello yoga, invece enigmatica e fitta di allegorie ermetiche e di riferimenti alla vita del monaco errante, dello Yogi, del Siddha, e alla sadhana esoterica. Perciò è un testo complesso, anti-intuitivo, ironico, poi beatifico e estatico, a tratti oscuro, comunque veloce, ritmato e vivace.
E’ un poema scritto con l’intento di sfidare l’intelligenza e le aspettative del lettore, e perciò per destrutturare il linguaggio e la mentalità razionale, e con esso il pensiero di chi legge. Il suo scopo è spingere a tuffarsi nell’orizzonte – o nel logos – del siddha, che è l’outsider e il mago, l’enigma in persona, al di là del duale e del non duale: lo Yogi Gorakh è “il fanciullo che parla dal più alto dei cieli”.
Si tratta di un orizzonte di meditazione che è molto radicale rispetto a quelli in voga ai nostri giorni. Il testo offre molti punti letteralmente di appoggio, su cui sviluppare quel percorso di meditazione, come inteso originariamente, su cui lo yogi deve lavorare in autonomia. Si spalanca l’orizzonte della meditazione, in cui approfondire le singole stazioni.

A differenza del sapere religioso, ben noto e reiterato dalla tradizione tra i confini del "villaggio", il sapere che Gorakh incarna non può essere indicato tra le definizioni che sono postulate dai dotti, dalle usanze e dai sacerdoti. Egli è un sapere incarnato e vivente, sempre nuovo, imperituro e rinnovato dall’esperienza che nel tempo è maturata nella coscienza degli yogi che hanno intrapreso lo stesso cammino, che si illuminerà con l’immagine già misteriosamente addotta da Eraclito. “Un fanciullo che parla dall’alto dei cieli”.

La Parola (Sabad) che andiamo a esporre è esoterica, codice e chiave di accesso a un regno e un pensiero differenti. Nessuno può dire di possederla, poiché la sua espressione è il suo stesso occultamento e la sola chiave d’accesso è il risveglio che riesce a suscitare. Il Sabad deve procurare il risveglio della stessa condizione nell’interlocutore, risvegliare il Sabad. Non è un sistema normativo che si possa imporre, non è un’ideologia a cui si possa aderire, non è un argomento che si possa padroneggiare, non è una tesi che si possa confutare o un sistema da applicare alla lettera. Sabad è la libertà della Parola ispirata, dell’esperienza diretta, del cuore di chi parla, il riverbero del suono primordiale incausato. Sabad è il seme stesso che si getta nel terreno del cuore, dove Gorakh "ara il campo". Chi nasce da quel seme è "uno di noi".

 

Testo e commento del Gorakh Bani sono pubblicati su Satsang.it

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