Home

VISIONAIRE.ORG

Testi del Vedanta, dello Yoga e della tradizione Hindu.

Dal 2001 Visionaire.org è scritto, illustrato, pubblicato da Beatrice Polidori (Udai Nath)

Testi del Vedanta

Bhagavad Gita

Il Signore creò  il mondo, e volle proteggere la sua esistenza. In primo luogo fece i progenitori, guida delle genti (prajaa - Pati), a partire da Marichi, e  impartì loro la legge  (Dharma), caratterizzata dai precetti operativi  (pravRitti) descritti nei Veda. Poi creò Sanaka, Sanandana e altri, e impartì loro la legge della rinuncia all'azione (NIVRitti), dalla conoscenza e dal  distacco. Duplice è la Legge descritta nei Veda - una di azione e l'altra di rinuncia all'azione – con cui è retto il mondo. Questa duplice legge deve essere osservata da parte dei membri di tutte le classi, a cominciare dai Brahmana, per tutta la durata delle stagioni della vita, in quanto porta direttamente a ottenere la prosperità e la liberazione, il Sommo Bene.

Nel corso del tempo, a causa dell'egoismo di coloro che dovevano difendere legge, e la conseguente diminuzione della conoscenza discriminativa, l'ingiustizia divenne più potente e prevalse sulla legge. Volendo mantenere la stabilità del mondo, il Creatore primordiale, che tutto pervade, il Signore (Vishnu), chiamato Narayana, si incarnò e nacque da Devaki e da Vasudeva, come Krishna, al fine di ristabilire la legge divina dei Veda.  Solo se la Legge vedica è preservata, il suo spirito proteggerà la vita delle diverse classi di persone.

Ashtavakra Samhita

Tu non appartieni ai bramini, ai guerrieri né ad altra casta, tu non sei in alcuno stadio di vita, non sei nulla di ciò che i tuoi occhi possono vedere. Sei privo di attaccamento e di forma, il testimone di tutto - [dunque] sii beato, ora. Giusto e ingiusto, piacere e dolore appartengono soltanto alla mente e non ti riguardano. Tu non sei l'agente o il fruitore delle conseguenze [dell'agire]; tu sei sempre libero.

Tu sei l'unico testimone di tutto, completamente libero. La causa della sofferenza è nel ritenere il testimone qualcosa di diverso da questo. Finché sei stato ingannato dal nero serpente dell'opinione di te stesso, hai creduto stoltamente: "io sono colui che agisce"; ora dissetati col nettare dell'evidenza: "io non sono colui che agisce" e da subito sii felice. Brucia la foresta dell'illusione con il fuoco della conoscenza.

Mandukya Karika di Gaudapada

Mi inchino al Brahman che pervade l'universo con l'effusione della conoscenza, che pervade ciò che è mobile e ciò che è immobile, Colui che osserva tutto quello che può essere conosciuto nel mondo grossolano [durante lo stato di veglia], Quello per cui si sperimenta tutto ciò che nasce dal desiderio ed è illuminato dall'intelletto [durante lo stato di sogno], e che riposa nella Sua beatitudine e fa che tutti noi vediamo attraverso la Sua Maya, quello che, nei termini di Maya, è il Quarto [Turiya] e il supremo, immortale e non nato.

Turiya, il Sé dell'universo - che osserva i frutti della virtù e del vizio nel mondo grossolano, che conosce gli oggetti sottili creati dalla Sua intelligenza e illuminati dalla Sua luce e che riassorbe tutto questo gradualmente in Sé, e che abbandonata ogni differenziazione diviene privo di attributi – che possa Egli accordarci la Sua protezione.

श्रुति Śrūti

Ishavasya Upanishad

Il volto della Verità è nascosto da una maschera d’oro; rimuovilo, oh Conoscitore, perché trionfi la verità, perché sia veduto. O Conoscitore, o Veggente, o Ordinatore, Sole Illuminante, o Padre delle creature, apri i tuoi raggi divini, trattieni il tuo ardore, affinché io possa conoscere il tuo volto benedetto. L'essere luminoso che abita in te, quello io sono.

Brhadaranyaka Upanishad

Om! L'aurora è il capo del cavallo sacrificale; il sole è il suo occhio, il vento il suo respiro, il fuoco onnipresente la sua bocca, l'anno il suo corpo. Il cielo è il dorso del cavallo sacrificale; l'atmosfera è la sua pancia, la terra il suo inguine; i punti cardinali sono i suoi fianchi, i punti intermedi le sue coste, le stagioni le sue membra, i mesi e le quindicine le sue giunture, i giorni e le notti le sue gambe, le costellazioni le sue ossa, le nubi le sue carni. La sabbia è il cibo che egli digerisce; i fiumi i suoi intestini, i monti il suo fegato e i suoi polmoni, le erbe e le piante la sua criniera; il sole che si leva è il davanti del suo corpo, dietro il sole che tramonta. Il lampo è il suo ringhio, il tuono lo scuotimento del suo corpo, la pioggia la sua orina, la voce della parola il suo nitrito.
Il giorno, che posa sull'oceano orientale, fu la coppa posta dinanzi al cavallo. La notte, che si trova sull'oceano occidentale, fu la coppa posta dietro al cavallo. Egli fu il Destriero che portò gli Dei, lo Stallone che portò i Gandharva, il Corsiero che portò i Demoni, e infine portò gli Uomini, come fa il Cavallo. Egli è di casa nell'oceano, dove si trova la sua stalla.

Mandukya Upanishad

 

Tutto è contenuto nella sillaba Om.

Il passato, il presente e il futuro non sono altro che la sillaba Om.

Quello che trascende la triade temporale, a sua volta, è l’Om.

Tutto è Brahman.

Il sé è Brahman.

Ecco il Signore supremo, l’onnisciente, il regolatore interno;

esso è il principio, l’origine e la fine di tutti gli esseri.

 

Sri Adi Shankara

Shankaracharya

Vivekacudamani

“Il gran gioiello della discriminazione”  
Istruzione sul discernimento spirituale

1. Rendo onore al sadguru Govinda la cui natura è suprema beatitudine, il quale si rivela mediante l’insegnamento vedantico che è di là dal linguaggio e dalla percezione mentale.
2. Per tutte le creature viventi non è agevole avere una nascita umana, in particolare ottenere un temperamento maschile, più difficile è perseguire il sentiero della devozione vedica, più difficile ancora è acquisire la perfetta conoscenza delle Sacre scritture. Altresì è raro discriminare tra il Sé e il non-Sé e realizzare l’identità del Sé con Brahman. Questo tipo di liberazione perfetta è il risultato di meriti accumulato nel corso di innumerevoli nascite.

Soundarya Lahari, L'Onda della Bellezza

"L'Assoluto è senza forma, ma l'energia è femminile. Quando l'energia prende forma, è chiamata Madre. Madre è la potenza in movimento, che solleva in onde le acque calme dell'Assoluto." Swami Vivekananda

"Non c'è Shiva senza Shakti o Shakti senza Shiva. I due, per loro stessa natura, sono uno. Ciascuno di essi è coscienza e beatitudine." Arthur Avalon

"Shakti è l'energia primordiale latente,  indifferenziata e auto-cosciente, che tutto pervade, che si manifesta per creare l'universo dopo il diluvio o la grande dissoluzione (Mahapralaya). Questa Shakti non è diversa dalla coscienza (Cit), il loro rapporto è di inseparabile unità (Avinabhava Sambandha) come tra il fuoco e il calore, un soggetto e le sue caratteristiche, la parola e significato ecc. In altre parole, uno non esiste senza l'altra." 

Advaita Sadhana

Antologia degli insegnamenti di
Sri Chandrasekharendra Saraswati Swamigal.
Commento del Vivekacudamani di Shankara. [PDF]

Con grande compassione il nostro Acharya Shankara Bhagavatpada ha tracciato il Saadhanaa-kramaM (il metodo della Sadhana) per raggiungere lo scopo dell’Advaita. Tutto ciò che ha fatto è in accordo con la Sruti (i Veda). Il corpo dei Veda ha una testa, le Upanisad. Esse sono chiamate ‘shruti-shira’, che significa ‘la testa della Sruti’. L’alto edificio della Sadhana costruito per noi dall’Acharya è fondato sulle Upanisad.
Egli ha tracciato un programma chiamato ‘Saadhana-chatushhTayaM’ (la Sadhana in quattro fasi). Nel suo monumentale commento al Brahma Sutra fin dall’inizio dice: 'nitya-anitya-vastu-vivekaH' si deve discriminare tra ciò che è reale e cioè che non è reale e nomina la quattro fasi del cammino.
Come il Sutra-Bashya è il culmine dei commenti scritturali, il Viveva-Chudamani è la massima espressione delle opere dette prakarana. In questo testo è data una perfetta definizione delle quattro fasi del Saadhana-chatushhTayaM.

La filosofia di Shankara

La filosofia di Shankara

Questo articolo esamina l'Advaita Vedanta classico di Shankaracharya e alcune questioni basilari di epistemologia e soteriologia. La presentazione rimarrà fedele a ciò che Shankara ha effettivamente detto ed eviterà interpretazioni speculative del suo pensiero, come ad esempio le forme dell'Advaita Vedanta che possono significativamente essere adattate in modo da soddisfare le esigenze degli occidentali moderni. Per la maggior parte ci si riferisce ai commenti di Shankara sul Brahma Sutra e Brhadaranyaka Upanishad, forse i suoi lavori più importanti, con alcuni riferimenti anche ai suoi altri scritti. 

Ascolto, riflessione e meditazione nella pratica dell'Advaita Vedanta

L'analisi mentale dell'Upadesha (insegnamento) attraverso la riflessione costante è l'esercizio detto Manana. Successivamente, quando non esiste più necessità e scopo per ulteriore analisi e discussione, si procede con NidhidhyAsana, che è lo stato in cui la mente è concentrata esclusivamente nell'identificazione con l'atman- tattva, su cui si è giunti a una perfetta chiarezza, e la mente non è scossa da alcun movimento.

La Mente e la funzione dei Mahavakya.

La mente, che è chiamata 'organo interno' (antaHkaraNam), è indicata con quattro nomi in base alle rispettive funzioni: manas, buddhi, chittam e ahamkAra. La funzione del pensiero è conosciuta come manas, che designa l'attività della mente ordinaria, come comportamento, esperienza di piacere, repulsione, reazione e relazione. Quando viene presa una decisione, appellandosi al senso etico, alla verità, al discernimento, è detta buddhi o intelletto. La funzione di memorizzare le esperienze e le informazioni, e di compiere operazioni formali, è chiamata chittam. Il senso dell'io è ahamkAra. 

Devi Mahatmya

 

Durante il Navaratri, in India è tradizione leggere il Devi Mahatmya, suddiviso per i nove giorni (notti) dedicati alla Madre divina. La lettura di questo testo è una pratica devozionale riconosciuta e ricca di insight significativi. Il testo è stato tradotto e curato dai miei studenti durante il Solstizio d'estate 2020, anno apocalittico e insieme straordinario, e quindi da me revisionato commentato durante il Navaratri, per condividere la lettura del testo, a protezione e conforto dei devoti della Madre e di tutti. Lo dedichiamo al Navaratri d'autunno per tutti coloro che cercheranno rifugio nella Sapienza in tempi di angoscia. Adesh Adesh. Jay Ma!

 

Introduzione:

I. ORIGINE E TRADIZIONE DEL CULTO DELLA MADRE DIVINA IN INDIA.

II. IL DEVI MAHATMYA.

Giorno 1: Capitolo I (Madhu kaitabha samhaaram)

Giorno 2: Capitoli II, III, IV (Mahishhasura samhaara)

Giorno 3: Capitoli V, VI (Dhuumralochana vadha)

Giorno 4: Capitolo VII (Chanda Munda vadha)

Giorno 5: Capitolo VIII (Rakta biija samhaara)

Giorno 6: Capitoli IX, X (Shumbha Nishumbha vadha)

Giorno 7: Capitolo XI (Lode di Narayani)

Giorno 8: Capitolo XII (Phalastuti)

Giorno 9: Capitolo XIII (Benedizione di Suratha e Samadhi)


Testo e commento del Devi Mahatmya in PDF

Logos e Brahman: raffronto tra il pensiero di Eraclito e le dottrine indiane
di Ada Somigliana
da «Sophia», gennaio-giugno 1959, pp. 87-94.

 

Gli studiosi sono, per lo più, d'accordo sul valore che ha in Eraclito il termine Logos da un punto di vista generale; ma le opinioni divergono, quando si scenda al particolare e si debba spiegare in quali rapporti esso si trovi con determinati concetti espressi dal filosofo che, si comprende bene, debbono essergli collegati.

G. S. Kirk, in un suo recente saggio nella Revue philosophique [1], scrive: «Logos si trova nel fr. 1, nel fr. 2 e nel fr. 50. La difficoltà è che non sappiamo ciò che Logos voglia dire in questo senso». E continua: «Si tratta di qualche cosa che si può intendere e di cui si può sentir parlare (fr. 1), o di qualche cosa che si può ascoltare (fr. 50), o seguire e alla quale si obbedisce (fr. 2); tutte le cose avvengono secondo essa (fr. 1), essa è comune (ciò vuol dire, probabilmente, presente in tutte le cose, dunque afferrabile da tutti gli uomini) (fr. 2) etc.»; e conclude affermando che Logos sembra essere qualche cosa come «la verità delle cose».

Il moderno esegeta è riuscito a rilevare tutte le caratteristiche dell'Ente, che domina sovrano nella costruzione eraclitea; ma egli non ci spiega in quale connessione esse siano tra loro. Infatti questo non si rileva facilmente dai frammenti, considerati a sé, tanto più che la bivalenza di talune espressioni della lingua greca dà adito a diverse interpretazioni. Il neutro hén, per esempio, può esser tradotto "una sola cosa", come nel fr. 41 (Essere una cosa sola il sapere: conoscere l'intelletto, che governa tutto nel tutto), ma può essere tradotto anche "l'Uno". Così nel fr. 29: «I migliori scelgono l'Uno invece di tutte le cose, gloria eterna invece di soddisfazioni mortali». e nel fr. 50: «Non a me, ma al Logos dando ascolto, conviene riconoscere che l'Uno è tutte le cose», e nel fr. 57: «Dei più e maestro Esiodo; ritengono ch'egli tutto sapesse, lui che non conosceva il giorno e la notte: sono infatti l'Uno».

Con il cambiamento di una sola parola muta profondamente il valore ed il significato dei tre frammenti. Il filosofo non ci parla, in forma misteriosa, di una cosa non facilmente identificabile, ma dice chiaramente: l'Uno. E poiché questo Uno è tutte le cose (fr. 50), poiché questo Uno rappresenta la gloria eterna (fr. 29) ed in esso s'identificano i contrari (fr. 57), non abbiamo difficoltà a riconoscere quell'entità metafisica ch'è al centro della speculazione eraclitea, presente in tutti gli esseri ed in tutte le cose e realtà spirituale di ciascuno di noi [2].

Essa viene dal filosofo chiamata con differenti nomi, secondo il suo diverso modo di manifestarsi nell'universo e nella psiche [3]. Tra questi nomi vi è quello di lògos, che letteralmente significa Parola; ma non una parola qualunque, perché in essa è contenuta l'idea di qualche cosa di eletto e di spirituale, e veniva usata fin dall'epoca di Omero ad esprimere un'attività dello spirito.

Tale termine trova il suo equivalente in un nome largamente usato nel linguaggio metafisico dell'India, per indicare un'entità che ha le stesse caratteristiche del Logos, e questo nome è Brahman. Esso trae origine dal culto sacrificale e, nei testi vedici più antichi, aveva il valore di "parola sacra" con speciale riferimento al suono "Aum" (om), che i sacerdoti, nel cantare gli inni durante i sacrifici, ripetevano dopo ciascun verso [4]. Poiché si attribuiva grande potenza al sacrificio e si riteneva che la parola sacramentale pronunciata dal sacerdote operasse con magico potere su tutto l'universo, così il Primo Principio si metteva in relazione d'identità con la formula sacrificale ed il termine Brahman veniva usato, nella speculazione teosofica, quale punto d'attacco dell'idea per giungere alla conoscenza dell'Inconoscibile.

Ma la genesi di questo nome ha solo un interesse indiretto ai fini del nostro studio; quello ch'è importante per ora precisare è il parallelismo dei due termini Logos e Brahman, che hanno entrambi il significato di Parola con un certo valore di sacralità e stanno entrambi ad indicare l'Ente preso in senso astratto e quale espressione di supremo Vero [5]. Quando, come ho avuto occasione di osservare altrove [6], si tenga presente che questa entità divina è cosmica e psichica nel tempo stesso, e che l'essere umano, secondo il nostro filosofo, è compenetrato dallo spirito eterno, il quale rappresenta il suo "Io" trascendentale ed assoluto, non è facile rispondere al quesito che il Kirk si pone riguardo al valore del termine Logos nei su citati frammenti.

Il primo di essi si basa sull'importanza che il filosofo attribuiva alla conoscenza del Logos, particolare che non è sfuggito al Kirk e che trova, come il resto, piena rispondenza nelle dottrine dell'antico Oriente. Infatti, secondo il pensiero indiano, il tempo ha carattere ciclico [7] ed il mondo storico e le forme che si sviluppano nel tempo, viste sul piano dei ritmi cosmici, non hanno valore, perché mancano di durata e si definiscono per l'esistenza dei contrari. Ma, se si considera che il tempo e l'eternità (kâlâc-âkalaçca, tempo e senza tempo) sono due aspetti di un unico ente (aspetto manifesto e non manifesto) [8], che riunisce in sé tutte le polarità e le opposizioni, chi accede ad esso, realtà unica che trascende «il giorno e la notte» [9], ossia trascende i contrari, che sono l'espressione della limitatezza e della sofferenza, «passa al di là del dolore» [10].

«Chi vede [questa verità] non vede la morte, né la malattia; né il dolore; chi vede, vede il Tutto, raggiunge il Tutto da ogni parte. Egli diventa unico, diventa triplice, settemplice e nonuplo, ed inoltre vien ricordato ch'egli è undici e centoundici e ventimila» [11].

Ma questa conoscenza, che viene considerata il più alto vertice del sapere e via di salvazione [12], non è agevole né accessibile a tutti; solo pochi eletti possono pervenire ad essa attraverso l'insegnamento di un maestro che «li liberi dalle bende dell'ignoranza» [13] e l'aiuto della fede perché «quando uno, invero, ha fede, allora pensa. Chi non ha fede, non pensa» [14].

Pure Eraclito quando, nel primo frammento, accenna al Logos come a «qualche cosa di cui si può sentir parlare» (Kirk), allude a questa dottrina metafisica, ch'egli si accingeva a spiegare nel suo libro. Nel fr. che stiamo esaminando infatti si legge:

«E la Parola, che pure è sempre quella, gli uomini non la intendono né prima di averla ascoltata [15], né ascoltandola per la prima volta.

Infatti pure avvenendo ogni cosa secondo la Parola, inesperti ne sembrano anche quelli che hanno esperienza di idee e fatti, quali io espongo, spiegando ciascuna cosa secondo natura ed indicando come sia».

«Sempre quella», perché eterna, come giustamente intende lo Zeller, e pure perché costantemente presente in tutte le cose, di cui costituisce l'unica essenza [16]. Ma a questa importante verità metafisica gli uomini non sono capaci di arrivare da soli, e non sanno neppure comprenderla quando venga loro insegnata per la prima volta.

Inoltre, benché tutto avvenga attraverso questo Ente, il quale rappresenta la forza universale operante sullo svolgimento di tutti i fenomeni naturali, non lo conoscono neppure quelli che hanno dimestichezza con tale genere di studi (e qui forse Eraclito vuole alludere ai filosofi della Natura, che indagavano sui problemi della generazione e dissoluzione). Ad essi è rivolto l'insegnamento dell'Efesio, non agli altri uomini, che non sono animati dal desiderio di conoscere la verità, di cui non comprendono il valore ed il significato, indifferenti ed inconsci, quasi dormienti.

«Agli altri uomini sfuggono le cose che fanno quando sono desti, come non sanno quanto compiono dormienti».

Nella seconda parte del frammento ho seguito la traduzione dello Zeller (da cui si discosta il Mazzantini) e a spiegarne le ragioni mi si permetta una breve digressione.

Eraclito considera il sonno da un punto di vista metafisico: l'uomo, durante il sonno, separato dal mondo sensibile, vive d'intensa vita spirituale, alimentandosi alla luce della propria anima [17], e crea sogni e si immedesima con l'Assoluto [18]. In tale stato egli supera questo mondo d'illusorie differenziazioni, ritrova il Vero e con esso la suprema beatitudine. È una condizione simile a quella riservata allo spirito umano, quando la morte abbia spezzato i legami con la realtà empirica: per questo l'uomo dormendo «si accosta a chi è morto» (fr. 26). Poi, al risveglio, perde coscienza di quanto è avvenuto durante il sonno e dimentica la luce della verità, per lasciarsi nuovamente ingannare dall'apparenza delle cose labili e transitorie («Morte sono le cose che vediamo appena desti», fr. 21) [19]. Per questa ragione lo stato di veglia, dal punto di vista metafisico, è simile allo stato di sonno dal punto di vista fisico («svegliato si accosta a chi dorme», fr. 26). Ora l'espressione «Non sanno quanto compiono dormienti», del fr. che stiamo esaminando, si riferisce all'oblio per l'uomo, durante lo stato di veglia, di quanto era avvenuto mentre dormiva.

Nel corso del libro il filosofo parlerà poi ripetutamente di "dormienti" in senso metaforico [20]. Nel fr. 75 li chiama «cooperatori inconsapevoli dell'ordine cosmico», nel fr. 73 ammonisce che «non bisogna parlare ed agire come dormienti», e nel fr. 89 afferma che «per i pienamente desti esiste un solo mondo sociale; i dormienti si ripiegano ciascuno verso un proprio mondo personale».

Questo ultimo si spiega più facilmente congiungendolo con il fr. 2, che tradurrei:

«Bisogna seguire ciò ch'è comune. Ma, pure essendo la Parola comune a tutti, i più vivono come se avessero una ragione personale».

Il termine xynós non indica qui solamente, in senso generico, «presente in tutte le cose e quindi afferrabile da tutti gli uomini», come pensa il Kirk, ma piuttosto comune a tutti gli uomini in quanto presente nella loro anima, con la quale s'identifica, ed espressione di Verità vivente in loro (fr. 45, fr. 115 e fr. 119).

Per questa ragione gli uomini debbono considerarsi un tutto sociale, non viventi una vita indipendente ed esclusiva. Quindi le idee da seguire sono quelle che, essendo comuni a tutti, debbono essere considerate vera manifestazione del thèion, non espressione personale ed inganno dei sensi. [21]

Si comprende quindi come "per i pienamente desti", cioè per coloro che hanno capito il vero valore della vita, nella quale l'umanità rappresenta un tutto unico ed inscindibile (qualche cosa di più che un vincolo di fratellanza), esista "un solo mondo sociale" e "i dormienti", che non sono consapevoli del legame che li unisce ai loro simili, si ripieghino ciascuno verso un loro mondo esclusivo.

Poiché, come abbiamo visto, il nostro filosofo attribuisce somma importanza alla Sapienza [22], intendendo per sapienza la "Metafisica dell'Essere", nella quale egli vede la soluzione di tutti i problemi della vita universa, ne consegue ch'egli giudica prevalentemente i suoi simili secondo l'interesse che manifestano per essa [23].

Dunque vediamo da una parte i pochi saggi che ricercano la Verità e dall'altra «oi pollòi», i quali o si curano esclusivamente delle soddisfazioni materiali che la vita può offrire loro e «si rimpinzano come capi di bestiame» [24]; o danno ascolto alle leggende diffuse dai cantori del popolo [25] e seguono le antiche tradizioni, senza valutarne la consistenza e la veracità.

Non bisogna quindi prendere a maestro il volgo perché «oi pollòi kakòi, olígoi de agathòi» (fr. 104). E anche in questa affermazione la parola del sommo filosofo greco suona concorde con quella dell'antico savio d'Oriente:

«Che il brahmano, nella sua saggezza, avendolo riconosciuto [l'Uno] realizzi la Scienza. Che il suo pensiero non segua le idee della folla: le stesse sono parole vacue» [26].

Come abbiamo visto [27], i punti di contatto tra la speculazione eraclitea e quella indiana non sono pochi né trascurabili. Dal concetto dell'Uno-tutto all'identità dell'anima universale con quella individuale, dalla Teoria degli Opposti al loro superamento attraverso la conoscenza dell'Essere, dall'importanza dell'introspezione al disprezzo per coloro che ignorano le supreme verità metafisiche, dalla dottrina delle "due vie" a quella dello stato dello spirito durante il sonno, abbiamo tutta una catena di concordanze che involgono l'intero sistema [28], le quali, per il loro particolare carattere, non possono essere effetto del caso e non vanno quindi sottovalutate.

E ritengo utile insistere su questo punto perché, oltre a ragioni di metodo [29], ci sono dei fattori psicologici che, nonostante il nostro sforzo verso l'oggettività, ci spingono a non tenere quelle concordanze nella dovuta considerazione. Anzitutto il nostro orgoglio di Occidentali avvezzi a vedere in Grecia la culla del pensiero: poi il fatto che il mistero di Eraclito è un mito che amiamo. Intorno ad esso si sono misurati i nostri migliori ingegni e le loro opere, alcune delle quali apprezzabilissime per indagine storica e profondità di pensiero, qualora mutasse l'orientamento critico, dovrebbero per buona parte esser rifatte su di un piano completamente diverso. Infine i frammenti del filosofo, se esaminati alla luce del pensiero vedico, si compongono in unità intorno ad un nucleo centrale, l'Uno (il Logos), e tutto diviene chiaro, semplice, facile [30]; troppo semplice e troppo facile in rapporto all'immagine che di Eraclito, come osserva il Kirk [31], ci eravamo creati, prestandogli i termini di una speculazione posteriore.

La sua figura, ad ogni modo, non ne uscirebbe menomata, perché era più difficile per lui, educato nell'ambiente greco del suo tempo, penetrare nel vero spirito del pensiero orientale, di quanto non sia oggi per noi comprendere i suoi frammenti. Dobbiamo infine tenere presente che per opera sua il primo germe della speculazione aria, che doveva poi nel paese d'origine subire un processo involutivo, prendeva invece in Occidente grande sviluppo e dava frutti preziosi.

 

§§§

 

Note

 

1- Kirk, Logos, armonie, lutte, Dieu et feu dans Héraclite, in Revue philosophique, 1957, 3 Juillet-sept., pp 290-291.

 

2- A. Somigliana, Dall'Advaita al Logos eracliteo, nella Riv. Annali (Milano, vol. III. marzo-agosto 1954, pp. 245 e sgg.; vol. IV, genn.-giugno 1955 pp. 18 e sgg.; luglio-ott. pp. 38 e sgg.

 

3- Questo si riscontra pure negli antichi testi teosofici indiani, dove l'Ente viene chiamato con diversi nomi, tra i quali: Fuoco, Lampo, Luminoso, voci tutte che troviamo usate in questo senso pure nel libro eracliteo. Che pyr e lògos siano due nomi che si riferiscono alla medesima cosa, e precisamente all'Ente Primo, appare evidente anche dal fr. 31:

a) «Mutazioni del Fuoco: prima il mare [nel senso di acque primordiali], del quale una metà si fa terra, l'altra metà turbine di fuoco».

Il filosofo, che aveva accettato il punto di vista degli antichi pensatori indiani i quali vedono nella creazione la trasformazione del Supremo Principio, qui forse allude alla cosmogonia vedica, secondo la quale inizialmente vi era solo «il non essere, che era l'essere» (sadasadâtmakam), vale a dire il Principio ch'esisteva per sua natura, ma non per i sensi. Poi esso si rese manifesto prima nelle acque primordiali, quindi nell'uovo cosmico, di cui una metà era d'oro, l'altra metà d'argento. Infine la metà d'argento si trasforma in terra. quella d'oro in cielo infuocato.

L'Aranyaka-upanisad così si esprime: «Le acque erano "Ciò" [neutro, e significa l'Ente immaginato come coscienza assoluta e pura]. Le acque emisero il Vero; il Vero è il Brahman» (Aranyaka, V, VI, I).

b) «Il mare si diffonde e si commisura secondo quella stessa Parola, che esso era prima di divenire terra», ossia: le mutazioni sono apparenti, l'essenza è sempre la medesima. Il mare lògos, era prime, e lògos è ancora adesso, e come tale soggetto alla medesima legge.

 

4- La sillaba "aun" è l'inizio dei Veda e con essa il sacerdote iniziava il canto dell'Udgita.

 

5- Nell'Aranyaka-Up. troviamo questa definizione: "Il Brahman è l'Essere in sé" (IV, V, 28).

 

6- Oltre al saggio citato a nota 2, v. In margine ad un frammento di Eraclito, in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», Anno XLIX, sett.-dic. 1957, pp. 511-515.

 

7- È noto che pure per Eraclito il tempo ha carattere ciclico; anche in questo egli seguiva il sistema indiano, non quello sumerico poiché, come apprendiamo da Censorino (De Die Natali, XVIII), egli considerava il "Grande Anno" di 10.800 anni, mentre l'anno babilonese era costituito da 432.000 anni. Per guanto riguarda l'anno indiano v. l'interessante saggio di Jean Filliozat: Le symbolisme du monument du Phnom Bakhên, in «Bulletin de l'Ecole Française d'Extrème Orient», Tome XLIV, 1954, II, pp. 538 e sgg.

 

8- V. Maitri-Up., VII, II, 8. Il concetto dell'"aspetto manifesto e non manifesto" dell'Ente richiama, in un certo senso, al pensiero l'armonia visibile e invisibile di Eraclito.

 

9- Nell'Aranyaka (che, secondo il Deussen, sarebbe la più antica fra le Upanisad) sta scritto:

«Poiché tutto ciò è ghermito dal giorno e dalla notte, per mezzo di che un sacrificante è liberato al di là del dominio del giorno e della notte?» (Lett. II', I. 6).

 

10- Richiamo l'attenzione degli studiosi sull'importanza che Eraclito attribuiva alla conoscenza del giorno e della notte (fr. 57), e sulla sua affermazione: «ésti gar hen» (È infatti l'Uno). Essi dunque, secondo il filosofo, rappresentano due differenti aspetti dell'unico Ente, nel quale i contrari coincidono. Infatti nel fr. 65 egli scrive: «Il Fuoco: mancamento-sazietà, guerra-pace»; e nel fr. 87: «Dio: giorno-notte, inverno-estate, guerra-pace, sovrabbondanza-carestia etc.».

 

11- V. Chandogya-Up., 26-2. Questo passo, benché i numeri non corrispondano, richiama un epigramma scritto contro Eraclito di cui dà notizia Diogene Laerzio (IX-16): «Io sono Eraclito; perché mai, gente incolta, mi trascinate in su e in giù?» (allusione a quanto sta scritto nel fr. 60 connesso con la dottrina indiana delle "due vie" -v. A. Somigliana, Influenze vediche nel pensiero eracliteo, Ed. Annali, Milano 1953. pp. 18 e sgg.). «Non lavoravo per voi: per quelli che mi comprendono. Un solo uomo è per me tre volte diecimila e gli innumerevoli sono per me come nessuno». Non sappiamo se chi ha scritto l'epigramma abbia alterati i numeri, (che in India avevano un significato liturgico, e in Grecia non dicevano nulla di particolare); ma vi è analogia di pensiero e di stile. Forse l'epigramma allude ad un frammento andato perduto; ad ogni modo in alcuni di quelli rimastici troviamo già questo punto di vista, anche se espresso in forma un po' diversa.

 

12- Nei primi tempi gli Indiani vedevano la salvezza dell'uomo nella conoscenza dei supremi veri; più tardi, con l'avvento del Krisnaismo, la vedranno nella fede.

 

13- V. Chand.-Up., VI, XIV, 1-2. La difficoltà di conoscere l'Ente è chiaramente affermata pure nell'Aranyaka, dove, tra l'altro, sta scritto: «Quello che stando in tutti gli esseri è differente da tutti gli esseri e che gli esseri non conoscono...« (III, VII, 20). Richiamo l'attenzione degli studiosi sulle parole: «Quello che stando in tutti gli esseri, è differente da tutti gli esseri». Analogo concetto esprime Eraclito nel fr. 108: «Di quanti ho udito i discorsi, nessuno si profonda tanto nel vero da intendere che il Sapientissimo è diverso da tutti gli esseri»; forse il filosofo vuole alludere all'antropomorfismo della religione greca (v. Senofane).

Taluni esegeti hanno invece tradotto "è separato", ed allora entriamo in un altro ordine d'idee ed il fr. si potrebbe spiegare riferendosi al fatto che l'Essere, presente in tutte le creature, non si confonde con esse e le trascende. Io preferirei, ad ogni modo, tradurre: "si distingue", che rende più chiaramente il concetto.

 

14- Ed Eraclito, nel fr. 86, scrive: «Ma delle cose divine la maggior parte sfugge alla conoscenza umana per mancanza di fede» (trad. Mazzantini).

 

15- Qui "ascoltare" significa: apprendere da un maestro.

 

16- Cfr. fr. 50: «L'Uno è tutte le cose». Questo concetto non è completamente nuovo per la filosofia greca (v. Platone, Sofista, 242 C-D). e lo troviamo enunciato pure da Senofane, il quale, anche per altre affermazioni, ci fa pensare che qualche notizia, diretta o indiretta, dell'esoterica dottrina fosse a lui pervenuta. Non ha torto il Covotti di affermare che «malgrado i rimbrotti, un punto di contatto tra la concezione del divino di Senofane e quella di Eraclito ci deve essere». (A. Covotti, I Presocratici, Rondinella 1934). Se si pensa che il concetto dell'Uno-tutto è la chiave di volta della filosofia eraclitea, dobbiamo convenire che tale concordanza non è priva di significato. Inoltre entrambi i filosofi mettono in rilievo la debolezza della mente umana in confronto della sapienza divina.

 

17- «Nella notte accende un lume a se stesso...» (fr. 26). A chiarire maggiormente il significato di questo fr., dove il pensiero del filosofo greco sembra tanto vicino a quello dei savi upanisadici, oltre ai passi già citati nei miei precedenti saggi, ne riporto altri di differenti testi:

«Distruggendo da se stesso, fabbricando da se stesso, per mezzo del suo proprio splendore, per mezzo della sua propria luce esso dorme sognando; allora questo "Purusha" ha la sua luce in se stesso...». (Aranyaka, II, IV, 10).

«Per mezzo del sonno, mantenendo in completo riposo il corpo, esso, che non è addormentato, illumina del suo sguardo coloro che sono addormentati». (Aranyaka, III. IV, 12.

«Quel "Purusha", che veglia nei dormienti, creando questo e quel godimento, è la vera luce, è il Brahman». (Kathaka, II. IV, 1).

«Avendo vagabondato, avendo visto il bene ed il male, in senso inverso ritorna verso di sé per il risveglio. Di quanto esso ha potuto vedere in quello stato, nulla lo accompagna». (Aranyaka, IV, III, 17).

«Quando uno dorme così, lo spirito, fatto di conoscenza, riprende agli organi la facoltà che aveva loro prestata di conoscere». (Chandogya, VI-I-2).

«Nel sonno l'anima. l'unico uccello d'oro dello spirito, respingendo il corpo, veglia ed abbassa lo sguardo su coloro che dormono; in possesso della luce essa ritorna al suo [vero] posto. Mentre essa lascia il soffio vitale [il respiro] sorvegliare il suo nido anteriore [cioè, il corpo], immortale essa s'invola da questo nido e circola dove le piace. Nel sogno essa va in alto e in basso Dio [poiché l'anima individuale s'identifica con l'anima universale], essa crea numerose forme». (Brhd-Aranyaka, IV, III, 12 e sgg.).

Confrontare la precedente citazione con quanto scrive Sesto Empirico (Adv. Math., VIII, 129): "Secondo Eraclito, dunque, diveniamo intelligenti accogliendo, in noi per ispirazione questa Ragione Divina: nel sonno ne siamo dimentichi, nella veglia di nuovo consapevoli. Nel sonno infatti, chiusi i pori sensibili, la mente ch'è in noi rimane priva del suo naturale collegamento col Principio tutto circordante, rimanendo soltanto integro, come una specie di radice, il nesso respiratorio e, così separata, perde questa nostra mente la facoltà mnemonica che prima possedeva».

Si ha l'impressione che Sesto abbia letto nel libro eracliteo qualche affermazione del genere e l'abbia fraintesa, anzitutto perché egli guarda le cose da un punto di vista fisico (e l'Efesio parla di metafisica), e poi perché considera il Principio come qualche cosa di esterno all'uomo, mentre, secondo Eraclito, esso lo compenetra e s'identifica con la sua anima (V. la testimonianza di Aristotele, il quale afferma che, secondo Eraclito, il Principio è l'anima, De Anima, A, 2. 404).

 

18- «Quando l'uomo dorme, egli si riassimila con l'Essere, egli rientra nel suo vero se stesso» (Chandogya, VI, I, 2).

 

19- In questo stato di sonno l'uomo si eleva, dice la Brhadânyaka (IV, III, 14) al di sopra «di questo mondo e delle forme di morte» (mrtyo-rûpani). E qualche pagina indietro leggiamo: «In verità questo Purusha, quando nasce, quando si riveste di corpo, entra in contatto con i mali, e quando se ne distacca abbandona i mali, che sono le forme della morte» (III, IV, 8).

 

20- Il filosofo allude a coloro che guardano il mondo dal punto di vista empirico. Essi rimangono ingannati dall'aspetto esteriore delle cose e le vedono molteplici (fr. 56: «S'ingannano gli uomini nella conoscenza delle cose manifeste», e fr. 107: «Cattivi testimoni sono gli occhi e le orecchie per gli uomini, quando abbiano anime barbare»); invece quelli che sanno elevarsi ad un punto di vista trascendentale ("i pienamente desti", fr. 89), ricercando le cose in sé (autá kath'autá), indipendentemente da come appaiono alla nostra conoscenza, scoprono dietro la mutevole apparenza l'Essere unico, immutabile, eterno che, come direbbe Gentile, «è la radice dei soggetti empirici, l'unità della loro molteplicità».

 

21- È un concetto che Sesto Empirico ha capito con sufficiente chiarezza, cfr. Adv. Math., VII, 127.

 

22- V. nota 6.

 

23- Oltre ai passi già citati cfr. l'Aranyaka, III, VIII, 10: «Colui il quale in verità, o Gârci, senza conoscere questo imperituro se ne va da questo mondo, costui è un miserabile...». Il disprezzo non è inferiore a quello manifestato da Eraclito per coloro che non si curano di conoscere i supremi veri.

 

24- V. fr. 20 trad. Mazzantini.

 

25- V. fr. 104.

 

26- V. Aranyaka-Up., IV, XIV, 2-3.

 

27- Cfr. anche i saggi sopra citati.

 

28- Alcuni studiosi sono disposi a riconoscere l'origine orientale di qualche concetto o di qualche frammento di Eraclito e, nel tempo stesso, si dichiarano avversi alle interpretazioni basate sulla filosofia orientale. Essi non si accorgono che, in tal modo, anzitutto ammettono implicitamente che tali dottrine dovevano esser note al filosofo e poi non tengono presente che i frammenti non possono essere considerati avulsi l'uno dall'altro. Se l'Efesio accetta «l'inserirsi dei morti nella Ragione Eterna come un riassorbimento» (v. C. Mazzantini, Eraclito, Pref., p. 42) deve, per necessità di cose, aver accettato pure il concetto dell'Uno-tutto, che ne è la premessa ed il fondamento.

 

29- Per quanto riguarda la critica storica è importante tener presente che, anche se mancano documenti a provare l'esistenza di rapporti culturali tra India e Grecia, non mancano elementi che possano farci ritenere probabile la loro esistenza. A quanto scrive a questo proposito Jean Filliozat (L'Inde et les échanges scientifiques dans l'antiquité, in «Cahiers d'Histoire Mondiale», vol. I, n. 2, oct. 1953) credo di dover aggiungere che se, come prova l'Iscrizione di fondazione del palazzo di Dario a Susa, le materie prime per l'opera erano venute dal più lontani paesi dell'Impero, India compresa, non è da escludere che lo' stesso spirito cosmopolita si sia fatto sentire nella costituzione della fastosa corte. che quella reggia doveva ospitare.

 

30- Vengono ad essere eliminate anche buona parte di quelle contraddizioni che eravamo abituati a considerare effetto di un pensiero in formazione.

 

31- È il concetto a cui è ispirato lo studio di G. S. Kirk, Heraclitus, The Cosmic Fragment, Cambridge, University Press. 1954.

 

La Tradizione degli Yogi

GORAKHNATH E LA TRADIZIONE NATH

 

Adya (il principio maschile primordiale) e Adyā (il principio femminile primordiale) erano i due antichi dei che diedero inizio alla creazione. Successivamente nacquero quattro Siddha, dopo di loro nacque una ragazza, il cui nome era Gaurī. Per ordine di Adya, Śiva la sposò e discese sulla Terra. I nomi di quei quattro Siddha erano Mīnnāth (Matsyendranath), Gorakṣnath, Hāḍiphā (Jalendharnath) e Kānphā. Dal momento in cui furono creati, restarono assorti dalla pratica dello yoga e si sostenevano solo di aria. Goraksh Nath era al servizio di Mīn-nāth e Kanphanath era di Hāḍipā. 

dal Navanath Katha

Goraksha Sataka

La Centuria dei Versi di Gorakhnath

Om! Incomincia la centuria di Goraksha sull'Hata Yoga!
1. Mi inchino al venerabile Guru Matsyendranath, supremo bene, incarnazione della gioia; la cui semplice prossimità trasforma il corpo in pura coscienza e beatitudine.
2. Colui che, in virtù della paatica dell'adhdrbandha e delle altre tecniche posturali, illuminato dalla luce della coscienza, è lodato come Yogi e quale essenza e misura del tempo, degli yuga e dei kalpa, Colui in cui il Signore, oceano di conoscenza e beatitudine, ha preso forma, Colui che è superiore a tutti gli attributi qualitativi, manifesti e immanifesti, questi, Sri Minanath, io saluto devotamente
3. Avendo salutato con devozione il proprio Guru, Gorakhnath descrive la suprema conoscenza, ricercata dagli yogi, che conduce al Bene supremo.
4. Per il bene degli Yogi, Goraksa espone la Centuria di versi la cui conoscenza è il percorso sicuro verso lo stato supremo.
5. Questa è la scala che porta alla liberazione, per cui la mente è distolta dalle gioie dei sensi e si rivolge allo spirito, e con cui si sfugge la morte.

 

SIṢYĀ DARSAN

OṂ. Dall'eterno, l'Om emerge. Dall'Om, lo spazio [ākāś] emerge. Dallo spazio, l'aria emerge. Dall'aria, il fuoco emerge. Dal fuoco, l'acqua emerge. Dall'acqua, la terra emerge. La forma della terra è la bellezza della Dea. La forma dell'acqua è l'aspetto di Brahma. La forma del fuoco è la maya di Vishnu. La forma dell'aria è il corpo di Dio. La forma dello spazio è l'ombra del Suono [Nad] La forma del Suono emerge dall'eterno.

ABHAI MĀĀTRĀ JOG

OM. Il lignaggio dei Perfetti, la via della saggezza, la vera terra, la postura naturale e il respiro, la medicina filosofale del respiro yogico, la grotta dell'autocontrollo, l'astinenza come perizoma, il decoro come cintura di castità, l'unità trascendente come scialle di meditazione, l'unione, l'Uddhiana Bandh, il vero mudra, la virtù come abito, il perdono come cappello, l'ardore come supporto, l'introspezione come sacca delle elemosine, la pazienza come bastone, la discriminazione come spada, la pratica ascetica come ruota, il chakra radice come ciotola per l'acqua, la mente come acqua, l'elisir come cibo, la compassione, la meditazione del segreto, il discernimento come libro, la lingua come alchimia...

 

Adesh Adesh

Quando due Yogi Nath si incontrano, usano la parla आदेश (Ādeśa)per rivolgersi l'un l'altro il saluto. Nel dizionario Sanscrito o Hindi troveremo che la parola ādeś si traduce come ordine, legge, comando o istruzione, ma i Nath associano a essa un significato molto più ampio.

La parola ādeśa è composta di due parti: आदः (ādaḥ), e ईश (īśa), dunque ādaḥ + īśa = Ādeśa. आदः (ādaḥ) significa ricevere o essere legati a, mentre ईश (īśa) significa signore, padrone, ed è anche uno dei nomi di Shiva; inoltre esprime anche eccellenza, abilità, potere. I Nath ritengono che fu Shiva stesso il fondatore del loro ordine, con il nome di आदिनाथ (Ādi Nātha), "Il Primo Nath", "Il Maestro Primordiale", che è unanimemente accettato dagli Yogi come Adi Guru (Primo Guru) e la Divinità sovrana del Nath Sampradaya. E' detto anche Yogeshvara (il Signore dello Yoga) l'ideale ascetico stesso, signore di austerità e penitenza, Signore degli spiriti e delle anime. Nel senso più ampio, Adi Nath si può tradurre come "il Signore Primordiale", nel suo ruolo di Signore di tutto il creato.

GORAKSHA VACANA SAMGRAHA.

Le istruzioni di Gorakhnath. 

1. Alcune persone desiderano la non dualità, altri desiderano la dualità. Ma non troveranno la Realtà, che è sempre e ovunque la stessa, diversa dalla dualità e dalla non dualità.
2. Se il Dio (Shiva) a cui tutto va è immutabile, pieno, indiviso, allora oh! La maya, la grande illusione, le false nozioni di dualità e non dualità.
3. Si dice che il supremo Brahman sia libero dall'esistenza e dalla non esistenza, libero da distruzione e generazione, al di là di ogni concezione.
4. Coloro che conoscono la Realtà lo conoscono come infinito spazio, vera conoscenza e beatitudine, ignoto al ragionamento e all'esempio, al di là della mente, dell'intelletto e delle altre funzioni.
5. Shakti è inerente a Shiva, Shiva è inerente a Shakti. Si deve riconoscere che non c'è differenza tra essi, come tra la Luna e la sua luce.
6. Quindi Shiva senza Shakti non potrebbe fare nulla. Ma dacché è unito al suo potere (shakti), è causa di tutte le forme sensibili.
7. Dotato di infinita Shakti, Shiva perpetua il manifestarsi di tutte le forme, eppure rimane uno solo, senza secondo, nella sua propria forma.

Adi Nath, Matsyendra Nath e Goraksh Nath. L'origine della tradizione Nath.

Da tempo l'India è riconosciuta come un importante centro della vita spirituale, che ha esercitato grande influenza sullo sviluppo di tutta la civiltà umana. La storia del paese è stata sempre segnata dalle storie di diversi grandi santi, Siddha e MahaYogi, che appaiono di volta in volta a guidare l'umanità verso ideali più alti, grazie all'esempio delle loro vite illustri.

Alcuni aspetti degli insegnamenti dei Nath

La posizione metafisica dei Nath non è monista né dualista. E' trascendente nel più vero senso della parola. Essi parlano dell'Assoluto (Nath), al di là delle opposizioni implicite nei concetti di Saguna e Nirguna, o di Sakara e Nirakara. Perciò, per essi il fine supremo della vita è realizzare se stessi come Nath e restare eternamente radicati al di là del mondo delle relazioni. La via per conquistare tale realizzazione è detta essere lo yoga, su cui investono molta energia. Sostengono che la Perfezione non si posa raggiungere con altri mezzi, se non con il sostegno della disciplina dello yoga.

I Siddha e la Via del Rasa

Un Siddha è qualcuno che si dice abbia raggiunto poteri sovrumani (Siddhi) o un Jivanmukthi, un liberato in vita. Il termine potrebbe anche essere tradotto come il raggiungimento della perfezione o dell'immortalità. Tale Siddha dotato di un corpo divino (divyadeha) è Shiva stesso (Maheshvara Siddha). È il perfetto, che ha superato le barriere del tempo, dello spazio e dei limiti umani. Un Siddha nella sua forma idealizzata è liberato da tutti i desideri (anyābhilāṣitā-śūnyam), colui che ha raggiunto un'identità impeccabile con la Realtà suprema.

Gorakh Bani

 

Il Gorakh Bani è un poema sapienziale di epoca medievale attribuito a Gorakhnath, composto di 275 strofe, più una serie di composizioni aggiuntive, dette Pada.
E’ un testo dei più misteriosi e affascinanti. E’ il Sabad, la parola spontanea dell’illuminato, lontana dai canoni scolastici vedantini e dello yoga, invece enigmatica e fitta di allegorie ermetiche e di riferimenti alla vita del monaco errante, dello Yogi, del Siddha, e alla sadhana esoterica. Perciò è un testo complesso, anti-intuitivo, ironico, poi beatifico e estatico, a tratti oscuro, comunque veloce, ritmato e vivace.
E’ un poema scritto con l’intento di sfidare l’intelligenza e le aspettative del lettore, e perciò per destrutturare il linguaggio e la mentalità razionale, e con esso il pensiero di chi legge. Il suo scopo è spingere a tuffarsi nell’orizzonte – o nel logos – del siddha, che è l’outsider e il mago, l’enigma in persona, al di là del duale e del non duale: lo Yogi Gorakh è “il fanciullo che parla dal più alto dei cieli”.
Si tratta di un orizzonte di meditazione che è molto radicale rispetto a quelli in voga ai nostri giorni. Il testo offre molti punti letteralmente di appoggio, su cui sviluppare quel percorso di meditazione, come inteso originariamente, su cui lo yogi deve lavorare in autonomia. Si spalanca l’orizzonte della meditazione, in cui approfondire le singole stazioni.

A differenza del sapere religioso, ben noto e reiterato dalla tradizione tra i confini del "villaggio", il sapere che Gorakh incarna non può essere indicato tra le definizioni che sono postulate dai dotti, dalle usanze e dai sacerdoti. Egli è un sapere incarnato e vivente, sempre nuovo, imperituro e rinnovato dall’esperienza che nel tempo è maturata nella coscienza degli yogi che hanno intrapreso lo stesso cammino, che si illuminerà con l’immagine già misteriosamente addotta da Eraclito. “Un fanciullo che parla dall’alto dei cieli”.

La Parola (Sabad) che andiamo a esporre è esoterica, codice e chiave di accesso a un regno e un pensiero differenti. Nessuno può dire di possederla, poiché la sua espressione è il suo stesso occultamento e la sola chiave d’accesso è il risveglio che riesce a suscitare. Il Sabad deve procurare il risveglio della stessa condizione nell’interlocutore, risvegliare il Sabad. Non è un sistema normativo che si possa imporre, non è un’ideologia a cui si possa aderire, non è un argomento che si possa padroneggiare, non è una tesi che si possa confutare o un sistema da applicare alla lettera. Sabad è la libertà della Parola ispirata, dell’esperienza diretta, del cuore di chi parla, il riverbero del suono primordiale incausato. Sabad è il seme stesso che si getta nel terreno del cuore, dove Gorakh "ara il campo". Chi nasce da quel seme è "uno di noi".

 

Testo e commento del Gorakh Bani sono pubblicati su Satsang.it

I cookie rendono più facile per noi fornirti i nostri servizi. Con l'utilizzo dei nostri servizi ci autorizzi a utilizzare i cookie.
Ok