Vidyaranya: Jivanmuktiviveka, la Liberazione in vita.

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Testi del Vedanta, dello Yoga e della tradizione Hindu.

Dal 2001 Visionaire.org è scritto, illustrato, pubblicato da Beatrice Polidori (Udai Nath)

Il Sannyasa è di due tipi, noti come Vividisha Sannyasa e Vidvat Sannyasa, ovvero la rinuncia del Ricercatore e la rinuncia del Conoscitore. Il primo tipo conduce alla liberazione dopo il trapasso (Videhamukti) e il secondo alla liberazione nel corso della vita (Jivanmukti). Il pre-requisito essenziale per entrambi i generi di Sannyasa è il distacco. Il distacco è di tre generi: debole, forte e molto forte. Il distacco che sopravviene in caso di talune calamità, come la morte di una persona cara o la perdita di beni, non può durare ed è definito debole. Tale temporaneo sentimento di distacco non rende la persona qualificata al sannyasa. La determinazione di non sposarsi, non avere figli e lasciare la vita laica è definita distacco forte. Vi sono quattro generi di Vividisha Sannyasa: Kutichaka, Bahoodaka, Hamsa e Paramahamsa. Il distacco che si definisce forte, rende la persona qualificata soltanto per i primi due generi di sannyasa, Kutichaka e Bahoodaka. Questi due ordini sono detti “Tridandin” poiché portano come segno distintivo tre lunghi bastoni sottili, legati insieme, simbolo della triplice rinuncia a tutto ciò che è connesso a corpo, mente e parola. I Kutichaka risiedono in un eremo solitario, mentre i Bahoodaka si spostano continuamente tra i vari luoghi sacri. La scelta tra le due opzioni dipende principalmente dalle proprie condizioni fisiche, se adatte agli spostamenti continui o meno.

Quando una persona è libera da desiderio, non solo dei piaceri terreni, ma anche dei piaceri dei mondi superiori (ricordiamo che il “paradiso” nella dottrina hindu è soltanto un mondo superiore in cui si dimora dopo il trapasso per un tempo limitato, godendo dei frutti delle buone azioni compiute, prima di reincarnarsi ancora), grazie alla consapevolezza che anch’essi sono transitori e porteranno comunque al ripetersi del ciclo di nascita e morte, questi è detto avere un distacco molto forte. Questo tipo di distacco consente alla persona di prendere i titoli di Hamsa e Paramahamsa Sannyasa. Un Hamsa Sannaysi va dopo il trapasso al Brahmaloka, lì realizza la verità assoluta e ottiene la liberazione. Questa via è detta Kramamukti, o liberazione per stadi. Il Paramahamsa è l’asceta dell’ordine più elevato, che possiede completo controllo dei sensi; può conoscere la liberazione già durante il corso della vita: e questo viene definito Jivanmukti.

I Paramahamsa sono di due tipi: quelli che ricercano la liberazione e i conoscitori del Sé. Il ricercatore è colui che ha rinunciato a tutti i desideri e non vuole più null’altro che la realizzazione del Sé. Egli non desidera alcuno dei tre mondi, non il mondo degli uomini, non quello degli antenati, né quello degli dei. I mezzi per ottenere ciascuno di questi tre mondi sono rispettivamente: mettere al mondo un figlio, l’osservanza dei riti prescritti nei Veda e la meditazione (Br.Up.1.5.26). Il ricercatore che rinuncia a tutti questi strumenti rimane intento unicamente alla ricerca del Sé, ovvero alla liberazione. Per ottenere questo deve arrivare al completo controllo della mente, del corpo e dei sensi.

Vividisha Sannyasa - La rinuncia del Ricercatore

Il desiderio di realizzare il Sé insorge come risultato dello studio dei Veda e della pratica dei riti prescritti, in questa vita o nelle precedenti. La rinuncia che consegue a tale desiderio è detta Vividisha Sannyasa o “rinuncia del ricercatore” (Vividisha significa “desiderio di sapere”). Questo Sannyasa è il tramite della conoscenza del Brahman. Ne esistono due tipi: uno consiste nella rinuncia ai Kamyakarma, o azioni motivate dal desiderio dei frutti, il secondo nell’ingresso in un ordine di Sannyasa istituzionale con la pronuncia della formula rituale (Praisha), il conferimento del bastone, ecc. Coloro che non possono entrare in un Sannyasa Ashrama per ragioni famigliari o di altra gravità, possono rinunciare mentalmente, continuando a svolgere i doveri relativi alle condizioni di vita esistenti. Vidvat Sannyasa - La rinuncia del Conoscitore

L’ingresso in un ordine di Sannyasa di coloro che abbiano già riconosciuto la realtà del Sé mediante l’ascolto, la riflessione e la meditazione dei testi sacri, è detto Vidvat Sannyasa. Un tale esempio è quello del saggio Yajnavalkya che, realizzata la più alta verità, espresse le sue intenzioni alla moglie Maitreyi e quindi divenne un Sannyasin (Br.Up. 4.5.2 e 4.5.15)

Mentre il Vividisha Sannyasin deve dedicare se stesso allo studio delle scritture, alla riflessione e alla meditazione per aspirare alla realizzazione del Sé, il Vidvat Sannyasin lotterà per arrivare all’annientamento della mente e all’eliminazione della Vasana, al fine di conseguire la Liberazione in vita. Su questo argomento prosegue il piano dell’opera di Vidyaranya.

Nella Jabala Upanishad, quando Atri obietta che l’abbandono del cordone sacro dei Bramani non è permesso, Yajnavalkya replica che è la conoscenza del Sé il vero cordone sacro del Paramahamsa Sannyasin (Jabala.Up.5). Dunque l’assenza di un cordone sacro esteriore è segno che il sannyasin appartiene alla categoria dei Paramahamsa. Si dice inoltre in questa Upanishad che Vidvat Sannyasin non recano segni esteriori dell’appartenenza ad un Ashrama, non sono legati ad alcuna forma di condotta e si comportano come dei folli, senza essere folli.

La procedura per cui un Tridandin può diventare un Vividisha Sannyasin, contraddistinto dal bastone unico, è la seguente. I tre bastoni, la borraccia per l’acqua e la stampella d’appoggio, il ciuffo e il cordone sacro devono essere offerti al Bhurloka, la terra, pronunciando il mantra "Bhuh Svaha", che significa “offerta a Bhuh” e quindi il tutto deve essere gettato in acqua. Quindi ci si dedicherà completamente alla ricerca del Sé.

Il Paramahamsa Vidvat Sannyasin è simile a un bambino appena nato, la cui mente è libera dalle coppie di opposti, priva di senso del possesso, fermamente stabilizzata nel cammino verso il Supremo Brahman, libera da desideri. Per mantenersi in vita senza contrarre obblighi con nessuno, si sostenta mendicando nei luoghi e nei periodi prescritti, usando l’ombelico come ciotola per le elemosine, imperturbabile che riceva o no a sufficienza; senza fissa dimora, si ripara dentro case in rovina, templi, sotto gli alberi, in opifici, in case dove arda il fuoco sacrificale, sulla riva dei fiumi, in grotte di montagna, nel cavo di un albero o nell’area sacrificale vicina ad una sorgente. Egli è libero da ogni sforzo, privo del senso di “io e mio”, sempre assorto nella meditazione del Sé, stabilizzato nella conoscenza del Sé; abbandona tutte le azioni terrene e in ultimo abbandona il corpo in completo distacco.

Sia i Vividisha Sannyasa che i Vidvat Sannyasa ricadono nella categoria dei Paramahamsa, ma le loro rispettive caratteristiche sono molto differenti e talvolta contraddittorie. Nell’ Arunika Upanishad è detto che il Vividisha Sannyasa è contraddistinto dall’abbandono di: ciuffo (segno dell’appartenenza alla casta dei Bramani), sacro cordone, studio del Karmakanda dei Veda (libri sulle azioni rituali), ripetizione del Gayatri, ecc e dall’assegnazione del bastone, dalle tre abluzioni giornaliere, dalla meditazione sul Sé e dallo studio delle Upanishad. Sebbene le stesse cose siano prescritte anche per i Vidvat Sannyasa, è detto nella Paramahamsa Upanishad che non sono necessarie. Un Vidvat Sannyasin è libero da tutte le regole che riguardano simboli esteriori, dalle norme sociali e dalle convenzioni. Egli rimane sempre e soltanto assorto nella realizzazione dell’identità col Brahman.
Anche nella Smriti, la distinzione tra questi due tipi di Sannyasa è evidente. A proposito del Vividisha Sannyasa, nel Brihaspati Smriti è detto: “Quando si giunge alla conoscenza (in senso generale) del Brahman Supremo, si prenda il bastone unico, e quindi si abbandonino il cordone sacro e il ciuffo; si dovrebbe rinunciare a tutto e prendere il Sannyasa solo dopo aver realizzato direttamente il Brahman supremo”.

La rinuncia non può basarsi sul desiderio di conoscenza che proviene dalla semplice curiosità. Vividisha implica un desiderio esclusivo di conoscenza, che esclude ogni altra cosa. Nel commento alla Bhagavad Gita, Shankara afferma che non si può essere ricercatori della Liberazione fintanto che ci sia ancora desiderio per i frutti delle azioni. Significa che Vividisha, il desiderio della conoscenza di Sé, si può dire attivo soltanto quando si abbia un totale distacco verso qualsiasi altra cosa.
L’apice della conoscenza è raggiunto quando l’identificazione col Sé sostituisce completamente l’identificazione col corpo. A questo punto il nodo del cuore è spezzato, ogni dubbio superato e le impressioni latenti sono scomparse.

Il “nodo del cuore” è l’errata identificazione del Sé con l’intelletto, dovuto all’ignoranza senza inizio; ha questo nome perché è un vincolo stretto come un nodo. I dubbi da superare sono: il Sé è soltanto il testimone o anche l’autore delle azioni? Se è soltanto il testimone, è questo il Brahman di cui parlano le Upanishad? E se è Brahman, può essere conosciuto dall’intelletto? E la Liberazione consiste semplicemente in questa conoscenza? Le “impressioni latenti” sono quelle che conducono alle nascite future. Questi tre fattori, risultanti dall’Avidya (ignoranza metafisica), scompaiono alla realizzazione del Sé.

Si solleva un nuova questione: se il Vividisha Sannyasa conduce al conseguimento della conoscenza del Sé, che impedisce le rinascite future, mentre ciò che rimane della vita presente rimane attivo a causa del Prarabdha karma (karma accumulato in precedenza), a che serve il Vidvat Sannyasa? Il Vidvat Sannyasa è necessario per raggiungere la Liberazione in vita, la condizione di Jivanmukti. Il Vividisha Sannyasa conduce solo alla Conoscenza.

La natura del Jivanmukti

La schiavitù è l’esperire piacere e dolore che derivano dal considerarsi gli autori delle proprie azioni e i fruitori delle loro conseguenze. A causa di questo incatenamento non si è capaci di esperire la Beatitudine che ci appartiene naturalmente. La cessazione del legame di schiavitù è il Jivanmukti o Liberazione in vita.
L’efficacia delle pratiche prescritte nelle Scritture è riconosciuta nel dialogo tra Vasishtha e Rama nello Yogavasishtha. Rama dice: “Le impressioni (vasana) latenti nella mia mente mi costringono ad agire in un certo modo. Non ho potere contro di esse”. Vasishta gli risponde: “Se sei sottoposto all’azione delle Vasana, la tua volontà, insieme all’entusiasmo e alla disciplina della mente, della parola e dell’azione sono i rimedi necessari per liberarti dalla tua dipendenza. Le vasana sono di due tipi: buone e cattive. Se le buone sono predominanti, esse stesse ti porteranno a conseguire la liberazione. Se sono predominanti le istanze negative, devi esercitarti a lungo al fine di sopraffarle. La mente può essere distolta dagli oggetti che non conducono al progresso spirituale, frequentando la compagnia di persone buone. La mente è come un bambino. Può essere disciplinata con la persuasione o con le maniere forti. Il controllo del respiro (Pranaayaama) e il ritrarre la mente dagli oggetti esterni (Pratyaahaara) sono due validi metodi per sottomettere la mente. In questo modo la mente diviene presto quieta. Con la pratica del Raja Yoga sorgono desideri positivi, proprio grazie alla pratica dello yoga. Si deve proseguire con tale pratica seguendo le istruzioni dell’insegnante, delle scritture e degli altri mezzi validi di conoscenza (Pramaana), finché si consegue la completa padronanza della mente e si realizza l’identità di Atman e Brahman. Dopo di che, quando gli ostacoli della forma e dei desideri illegittimi si sono superati, si devono abbandonare anche i desideri buoni. Tutti i desideri (anche quelli che provengono dal karma) devono essere superati per mezzo delle yoga, così che non si abbiano esitazioni a conseguire Liberazione in vita (Jivanmukti).

Caratteristiche del jivanmukti

Sruti e Smriti affermano l’esistenza dello stato di Jivanmukti. La Kathopanishad dice: “Colui che è liberato è completamente liberato”, che significa che colui che è diventato completamente libero dalla schiavitù nel corso della vita, è libero anche da ogni possibilità futura di ricadere in schiavitù, dopo la dipartita dal corpo.Poiché se dopo la morte tutti rimangono liberi per un certo periodo di tempo, ma certamente rinascono in seguito, colui che ha ottenuto la liberazione in vita rimane libero dalla nascita per sempre. Nella Brhadaranyaka Upanishad è scritto: “quando tutti i desideri che albergano nel cuore sono svaniti, il mortale diventa immortale e consegue il Brahman già in questo corpo” (4.4.7). In un altro passo della Sruti è detto: “Sebbene possieda occhi, egli è come se fosse privo di occhi; sebbene possieda orecchi, è come se non possedesse orecchi; sebbene dotato di mente, è come se fosse privo di mente; e sebbene dotato di vita, è come uno che non abbia vita”.

Il Jivanmukta è descritto con vari nomi, quali: Sthitaprajna (uomo dalla ferma saggezza), Bhagavad-bhakta (devoto di Dio), Gunaatita (al di là dei tre Guna), Brahmana (che ha realizzato il Sé), Ativarnaasramin (oltre i limiti dei Varna e degli Ashrama).
La condizione di Jivanmukti può essere ottenuta solo da una persona che abbia abbandonato tutte le azioni, quelle vediche come quelle secolari, che sia concentrato solo sulla conoscenza e immerso nella contemplazione del Sé. Jivanmukti e Videhamukti si distinguono solo in base alla presenza o assenza del corpo e degli organi di senso. In entrambi è assente la percezione della dualità.

Il Jivanmukta è colui per il quale questo mondo, in cui si muove e agisce, ha cessato di esistere. La mente della persona ordinaria reagisce alle varie forme del mondo e conosce la varietà e le differenze tra esse. La mente del Jivanmukta non viene modificata allo stesso modo e non percepisce differenze, ma vede tutte le forme come Brahman. Nel sonno profondo la mente non subisce trasformazioni, ma permangono in essa i semi della trasformazione. Perciò lo stato di sonno non può essere equiparato allo stato di Jivanmukti. I Jivanmukta non è toccato da piacere e dolore; non è compiaciuto per un fatto positivo, né è depresso per una calamità. Non brama di ottenere qualcosa, ma sopravvive con ciò che gli arriva spontaneamente. Sebbene i suoi sensi siano in funzione e possa fare esperienza di tutto, la sua mente è del tutto calma e non reagisce mai. Sebbene i suoi occhi vedano le cose, egli non le giudica buone o cattive, favorevoli o sfavorevoli, e dunque è libero da agitazione, attaccamento o avversione. I sensi, di per sé stessi, non causano alcun danno. E’ la mente che giudica ciò che viene esperito dai sensi e sviluppa attrazione e repulsione nelle persone comuni. Poiché la mente del Jivanmukti non sviluppa alcun giudizio, egli è privo di attaccamenti e di avversioni. Grazie all’assenza di agitazione mentale, egli è libero dalle vasana (impressioni latenti). La sua mente si mantiene sempre pura. Mai guarderà se steso come l’agente delle azioni, non identificandosi con il complesso corpo-mente, che è il vero protagonista dell’agire. Di conseguenza non è mai gratificato o depresso a causa dei risultati, buoni o attivi, delle azioni. Nessuno ha ragione di temerlo, poiché mai insulterà o offenderà altri in alcun modo. E mai avrà paura di altri. Rimarrà inalterato anche se insultato o aggredito. Egli non distingue le persone tra amici e nemici. Sebbene sia ricco di conoscenze, mai ne farà esibizione. La sua mente è del tutto esente da pensieri mondani e sempre concentrata sul Sé. Rimarrà sempre calmo, anche su fatti che lo riguardino direttamente, poiché libero da preoccupazioni di sorta, e soltanto consapevole della pienezza del Sé. Queste sono le caratteristiche del Jivanmukti.

Videhamukti

Quando il corpo del Jivanmukta muore, egli diventa Videhamukta, liberato dall’esperienza empirica e realizzato nella sua vera natura, come l’aria ritrova quiete alla fine della tempesta di vento. Immediatamente è dissolto il suo corpo sottile. Non si può definirlo “sat” (vero, esistente), perché si dovrebbe esprimere, non si può definirlo “praajna” (unità soggetto-oggetto), condizionata dall’avidya, o “Isavara”, che è condizionato da Maya. Non si può chiamare “asat” (inesistente, falso) o fatto di mera materia. Egli non sperimenta gli oggetti grossolani percepiti dai sensi. Non è Virat (il mondo), non Hiranyagarbha (uovo cosmico), non Isvara. Non è Visva (stato di veglia), Taijasa (sogno) o Praajna (sonno profondo). Perciò non si colloca nelle categorie di microcosmo (vyashti) o macrocosmo (samashti).

Sthitaprajna

L’uomo dalla stabile coscienza (sthitaprajna) è descritto nella Bhagavad Gita come colui che ha conquistato il supremo distacco e la perfetta padronanza della mente, grazie alla pratica dello yoga. La sua mente è sempre fissa sulla Verità. Quando in Samadhi, è assolutamente libero da tutti i desideri, e la mente non è sottoposta ad alcuna trasformazione. La sua soddisfazione è espressa dal sorriso di contentezza. Tale soddisfazione proviene dalla realizzazione del Sé. Nel Samprajnata Samadhi sussiste la distinzione tra colui che medita, l’oggetto della meditazione e l’atto del meditare (nota come Triputi); nel samadhi di cui stiamo parlando, detto Asamprajnata Samadhi, non esiste questa distinzione. La contentezza che ne deriva non è dovuta a una trasformazione della mente, ma dall’impressione lasciata dallo stato precedente, il Samprajnata Samadhi. Quando tale persona esce dallo stato di Samadhi, è privo di ansietà e di dolore, indifferente ai piaceri e libero dalle passioni, dal timore e dalla rabbia. Tale saggio, uscito dal Samadhi, conoscerà la trasformazioni mentali e le percezioni di piacere e di dolore provenienti dal Praarabdha karma, ma non proverà bramosia o ansietà per esse, poiché è dotato di perfetto discernimento e distacco. Passioni quali la paura o la rabbia, attaccamento, piacere o disgusto che sono dovute al Tamas (guna o involucro dello stato inerte e buio), non hanno posto nella sua mente. Come la tartaruga ritrae i suoi arti, così egli ritira i sensi dagli oggetti. La mente del Sthitaprajna, quando non è immersa nel Samadhi, e comunque libera dalle trasformazioni grossolane (tamasiche). Quando immersa in Samadhi, la mente non è soggetta ad alcun genere di trasformazione.

La fruizione effettiva degli oggetti sensibili può essere abbandonata evitandone il contatto, ma il desiderio degli oggetti potrebbe comunque permanere. Il desiderio scompare quando si realizza il Sé. Il Realizzato non necessita di alcun oggetto esteriore per essere felice, essendo Beatitudine in sé. Nella Brhadaranyaka Upanishad è detto: “Perché desiderare dei figli, se abbiamo già realizzato il Sé.” (4.4.2).
La pratica costante della meditazione sul Sé è necessaria per evitare una inavveduta regressione dal livello spirituale raggiunto, anche per una persona che abbia raggiunto il pieno controllo dei sensi. Come si possa regredire è descritto nella Gita, 2.62 & 63: Quando un uomo pensa agli oggetti dei sensi, sviluppa attaccamento per essi. L’attaccamento porta ad avvertirne un intenso bisogno. Se il bisogno non viene esaudito, sorge la rabbia. La rabbia porta alla perdita della capacità di discriminazione tra bene e male. Questo accade quando si smette di meditare la Verità. In queste circostanze si diviene inadatti alla liberazione, poiché l’insorgere di idee opposte produrrà un potente ostacolo. Ma colui che abbia dominato la propria mente è libero dall’attaccamento e dall’avversione, anche se circondato da ogni sorta di oggetti dei sensi, sarà in pace.

I mezzi per conseguire la realizzazione, come il controllo della mente e dei sensi e la meditazione sul Sé, devono essere praticati volontariamente dall’aspirante, e diventare la caratteristica dominante del Liberato. La condizione di colui che è fermamente stabilizzato nella conoscenza del Sé, in cui ogni percezione di separatezza è obliata dall’ininterrotto flusso della luce del Sé, è detto Jivanmukti o Liberazione in vita.

Bhagavadbhaktah – Il vero devoto di Dio

Chi sia il vero devoto è descritto nella Bhagavad gita, capitolo 12, versi 13, 14. La mente del devoto è fermamente rivolta a Dio, nel Samadhi, e non è distratta da nessun altro pensiero. Quando non immersa nel Samadhi, sebbene sperimenti gli oggetti dei sensi, non avverte gioia e dolore, indifferente ad entrambi. I versi 15 e 19 dello stesso capitolo lo descrivono come inalterato dalle coppie di opposti. Nello Naishkarmyasiddhi, 4.69 Suresvaracharya afferma che le buone qualità, quali l’assenza di conflitti, si manifestano spontaneamente e senza alcuno sforzo personale. Sorgono naturalmente e non costituiscono, nel caso di una coscienza perfetta, degli strumenti per raggiungere uno scopo, come invece nel caso dell’aspirante.

Gunaatita – Colui che ha trasceso i Guna

Tale persona è descritta nel 14esimo capitolo della Bhagavad Gita. Il mondo intero è costituito dal prodotto dei tre Guna: Sattva, Rajas e Tamas. Colui che abbia trasceso i Guna è uno Jivanmukta. Illuminazione, attività e delusione sono rispettivamente conseguenti a Sattva, Rajas e Tamas. Sono attivi negli stati di veglia e di sogno, e cessano nel sonno profondo, nel Samadhi e nello stato di vacuità mentale. Le attività sono di due tipi: accettabili e inaccettabili. Il Gunatita, libero dalle nozioni di accettabile e inaccettabile, non prova alcun conflitto o desiderio. Grazie alla sua capacità di discriminazione permane completamente indifferente, come lo spettatore disinteressato che assista alla lotta tra due fazioni. Nella sua visione sono i Guna, nella forma dei sensi, ad agire e reagire a contatto con gli stessi Guna, in forma di oggetti, mentre egli, puro Atma, non ha nulla a che fare con essi. L’errata nozione di essere l’attore delle azioni (e perciò il fruitore delle conseguenze) è causa dell’agitazione mentale. Questa visione è del tutto assente nel Gunaatita e perciò egli è libero dall’agitazione, equilibrato nella gioia e nella pena. Il servizio all’Essere Supremo, con la pratica della conoscenza e della meditazione, insieme ad una inflessibile devozione, sono gli strumenti da adottare per coloro che vogliono diventare Gunaatita.

Braahmanah – Il conoscitore del Brahman

La parola Braahmana indica il conoscitore del Sé supremo. Questi è qualificato per diventare Vidvat Sannyasin. Egli è privo di ogni senso di possesso. Non si preoccupa del tipo di abiti che indossa o del cibo che mangia o del luogo in cui riposa. Accetta soltanto lo stretto indispensabile di cibo, vesti e riparo necessari alla sopravvivenza. Dovrebbe indossare unicamente una pezza di lino e portare un bastone allo scopo di infondere fede negli ascoltatori quando impegnato, per pura compassione, ad impartire la conoscenza del Brahman ad altri. Mai dovrà pronunciare una sola parola a proposito delle preoccupazioni mondane dei suoi allievi, nonostante la sua umana simpatia per loro, ma sempre restare assorto nella meditazione. Deve evitare di parlare di altro che del Brahman. Non ci sono impedimenti alla meditazione quando invece si è in solitudine. La Smriti afferma che il religioso mendicante deve restare solo, perché quando si è in due o più è possibile che si finisca a parlare di politica o delle elemosine che ciascuno ha ricevuto. Egli non dovrà offrire benedizioni ad alcuno perché anche questo costituirebbe una distrazione, portando a pensare a cosa desiderino le persone che richiedono un gesto benedicente. Ancora la Smriti afferma che la conoscenza non può essere ottenuta da colui la cui mente è impegnata con i problemi mondani oppure nell’apprendimento letterario, o ancora nella conservazione del corpo. Il liberato avrà abbandonato ognuna di queste cose. Invece di parole di benedizione, potrà pronunciare semplicemente “Narayana”, che adempie ad ogni richiesta di benedizione. Non dovrà impegnarsi in alcuna ricerca per guadagnare qualcosa per se stesso o per altri. E’ detto nella Gita 18.48 che ogni attività è oscurata dagli errori come il fuoco dal fumo.
Il saluto è prescritto soltanto per i Vividisha Sannyasin, in questo modo: “Un monaco anziano sia salutato solo se appartiene allo stesso ordine dei monaci, e mai nessun altro”. Domandarsi della relativa anzianità dei monaci e dell’appartenenza al proprio ordine porta a una distrazione della mente, così il saluto non è prescritto per i Vidvat Sannyasin. Sri Sankara dice nell’Upadesa Sahasri 17.64: “A chi rivolgerà il suo saluto il conoscitore del Sé, quando si è stabilizzato nell’assoluto, che trascende tutti i nomi e le forme? Egli non ha più nulla a che fare con nessun tipo di azione”. Sebbene il saluto che può arrecare disturbo alla mente sia proibito, il saluto che può arrecare tranquillità alla mente è permesso. Srimad Bhagavata, 3.29.34 & 11.29.16: “Si può salutare e prostrarsi anche a un cane, a un intoccabile, a una mucca o a un asino, realizzando che Dio è presente in tutti loro, come sostanza del Jiva (essere vivente)”. La riverenza agli uomini è proibita, la riverenza a Dio è sostenuta, perché questa conduce alla libertà dalla schiavitù. Colui che è fermamente stabile nella conoscenza del Sé non è abbattuto di non aver ricevuto del cibo e non è sovraeccitato dall’averne avuto, perché entrambe le circostanze sono dettate dal destino. Non è legato alle ingiunzioni e alle proibizioni dei Veda. Il saggio Narada afferma nel Narada-pancha-ratra, 4.2.23 che l’onni-pervadente signore Vishnu deve essere conservato gelosamente nella mente e mai dimenticato, neppure per un momento; tutte le ingiunzioni e le prescrizioni sono inferiori a questa. Nel Mahabharata, Santiparva, 237.13 è detto che gli dei considerano un Brahmana colui che teme la folla come si temono i serpenti, gli onori convenzionali come la morte e la donne come i cadaveri. Perché la compagnia può condurre a futili discorsi e gli onori all’attaccamento, che instillano tendenze avverse al vero scopo della vita. Lo Yogi, mantenendo la mente sulla via della saggezza, deve comportarsi in modo che gli altri lo trattino con disprezzo mai cerchino la sua compagnia. La Manusriti dice che si deve evitare perfino di sedersi accanto alla propria madre, alla sorella o alla figlia, poiché i sensi possono far cadere persino un saggio (2.215).

Gli uomini del mondo eviteranno la solitudine a causa della paura che ne può sorgere, mentre l’opposto è vero per gli Yogi. Lo spazio immenso è pieno della suprema beatitudine del Sé, agli occhi dello Yogi, poiché egli è sempre assorto in meditazione e perciò non trova motivo di timore. Un luogo affollato è inadatto alla meditazione, perciò lo Yogi lo eviterà ricercando luoghi di solitudine.

Ativarnaasramin – Colui che è oltre i limiti dei Varna e degli Ashrama

L’ Ativarnaasramin è descritto nel quinto capitolo della sezione sulla liberazione, del Suta Samhita. Egli è il maestro dei discepoli che provengono da tutti i quattro Ashrama (stadi della vita: studente, capofamiglia, ritirato, rinunciante). Non diventerà mai il discepolo di altri. Egli è il Maestro dei maestri. Non vi è nessuno al mondo uguale o superiore a lui. Egli è colui che ha realizzato la verità suprema. Egli è completa Beatitudine e il testimone dei tre stati di coscienza: veglia, sogno, sonno profondo. Ho ottenuto la piena realizzazione che Varna (classi) e Ashrama sono sovrapposizioni immaginarie, imposte sul corpo, apportate dal Maya e che egli, essendo puro Atma, non ha alcuna relazione con esse. Ha riconosciuto nelle Upanishad che l’intero universo funziona meramente in presenza dell’Atma che è identico al Sé, così come gli esseri umani compiono le proprie attività alla luce del sole, mentre il sole non è per nulla coinvolta nelle loro azioni. Come vari monili d’oro non sono altro che oro, l’universo dalle molteplici forme e nomi proiettai da Maya non è altro che il Brahman. L’apparire di Brahman come universo è simile all’apparire della madreperla come argento. Il supremo Dio che è uno soltanto, privo di qualunque relazione, è come lo spazio che tutto pervade, pervade ogni essere, grande o piccolo, alto o basso. Ha realizzato che il mondo percepito nello sto di veglia è una creazione di Maya, come tutti gli oggetti dei sogni sono prodotti dell’illusione. Realizzato che egli stesso è il Sé, si trova ad essere oltre tutti i doveri destinati ai quattro stadi della vita.

Dunque è definitivamente dimostrato dalla Sruti che il Jivanmukti è un fatto reale.

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