Mandukya Karika di Gaudapada

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Testi del Vedanta, dello Yoga e della tradizione Hindu.

Dal 2001 Visionaire.org è scritto, illustrato, pubblicato da Beatrice Polidori (Udai Nath)

Gaudapada è stato il primo codificatore dell'Advaita Vedanta. E' considerato il maestro del maestro di Samkara (Sri Adi Shankara), Govinda, ed è probabilmente vissuto intorno all'inizio dell' VIII o alla fine del VII sec. A Gaudapada viene attribuito anche un commentario sull'Uttaragita. I principi fondamentali della filosofia Advaita, quali i gradi di realtà, l'identità di Brahman e Atman, Maya, la non applicabilità della causalità alla realtà ultima, lo Jnana conoscenza-saggezza quale mezzo diretto per il moksha o liberazione, e l'inconcepibilità del nulla assoluto, sono esposti nella sua Karika. Quest'opera è suddivisa in quattro capitoli. Il primo, intitolato Agama, spiega il testo della Mandukya Upanishad; Gaudapada dimostra che la sua visione della realtà è convalidata dalla Sruti e sostenuta dalla ragione. Il secondo capitolo, intitolato Vaitathya, spiega per mezzo del ragionamento la natura fenomenica del mondo, caratterizzato dalla dualità e dalla contrapposizione. La terza parte espone la teoria Advaita. Nell'ultima parte, intitolata Alatafanti o "Spegnimento della brace", viene ulteriormente sviluppata la posizione Advaita concernente l' Atman quale unica realtà e il carattere relativo dell'esperienza ordinaria. Come un tizzone di brace infuocata, quando viene mosso rapidamente, crea l'illusione di un cerchio di fuoco (alatacakra), così accade con la molteplicità del mondo. Questo capitolo fa riferimento alle vedute degli Yogacara e in alcune occasioni cita il nome del Buddha.
Gaudapada visse in un periodo nel quale il Buddhismo era molto diffuso; naturalmente conosceva molto bene le dottrine buddhiste e le approvava qualora non fossero in conflitto con l'Advaita. Il suo insegnamento veniva accettato dai Buddhisti perché il suo punto di vista non dipendeva da alcun testo teologico o dalla rivelazione. Agli Indu ortodossi dimostrava di avere anche il consenso dell'autorità. Le sue vedute liberali gli consentirono di accogliere le concezioni buddhiste e di adattarle alla visione Advaita.

L’analisi dell’esperienza

Gaudapada parte dalla teoria dei gradi o tipi di coscienza delineati nella Mandukya Upanishad, sostenendo che le esperienze di sogno sono della stessa natura di quelle di veglia. Se gli stati di sogno non si adattano al contesto dell'esperienza generale degli altri individui o della nostra stessa esperienza normale, ciò non è dovuto al fatto che essi cadano fuori della realtà assoluta, ma perché non sono conformi ai nostri criteri convenzionali. Essi costituiscono una classe separata di esperienze e, nell'ambito delle loro coordinate, sono coerenti. L' acqua del sogno può estinguere la sete del sogno, e dire che non estingue la sete reale non ha rilevanza. Affermare questo significa presumere che l' esperienza di veglia sia reale in se e che sia l'unica reale. I due stati di veglia e di sogno sono egualmente reali nell'ambito dei rispettivi sistemi di coordinate o egualmente irreali da un punto di vista assoluto. Gaudapada riconosce che gli oggetti dell'esperienza di veglia sono comuni a noi tutti, mentre quelli di sogno appartengono esclusivamente al sognatore. E tuttavia egli afferma: «Sia gli oggetti visti nel sogno che quelli visti nella veglia sono irreali». La sua tesi è che ciò che si presenta come un oggetto è irreale. L' argomento secondo il quale tutti gli oggetti sono irreali e solo il soggetto, quale testimone costante, è reale viene formulato in alcune Upanishad ed è stato sviluppato con risultati negativi nel pensiero buddhista; Gaudapada lo riprende per dimostrare che la vita è un sogno da svegli. Noi accettiamo il mondo di veglia in quanto oggettivo non perché abbiamo l'esperienza degli stati mentali di altre persone, ma perché accettiamo la loro testimonianza. Le relazioni di spazio, tempo e causalità che governano gli oggetti del mondo di veglia non debbono necessariamente essere considerate assolute. Secondo Gaudapada, «per natura di una cosa si deve intendere ciò che è completo in se stesso, ciò che è la sua natura, ciò che è innato, ciò che non è accidentale, o ciò che non cessa di essere identico a se stesso». Applicando un tale criterio si scopre che le anime e il mondo non sono reali, in quanto tali, e non sono altro che Atman.
I fenomeni dell'esperienza si presentano alla nostra mente ordinati da leggi e da relazioni, la principale delle quali è la causalità. In quale ordine la causa e l'effetto si succedono l'un l'altro? Se fossero simultanei, come le due corna di un animale, essi non potrebbero essere messi in relazione di causa ed effetto. L'analogia del seme e dell'albero non ci è di maggiore utilità. Non possiamo dare il nome di effetto a qualcosa se non ne conosciamo la causa: in tal caso la spiegazione causale non può essere completa. Noi consideriamo condizionato ogni stato di cose dato e ricerchiamo quali siano i suoi condizionamenti; quando questi ultimi sono stati trovati siamo costretti ad andare al di là di essi. Un tale processo non ha soluzione. Se, d'altra parte, crediamo che ci siano cause eterne e senza inizio, che siano esse stesse incausate, ma che producano degli effetti, allora come può, si chiede Gaudapada, ciò che genera essere esso stesso non-generato? Come può una cosa che si modifica essere al tempo stesso eterna? Dove possiamo vedere cose non generate che generano cose? Causa ed effetto sono ovviamente relativi, si sostengono a vicenda e cadono insieme. La causalità non è della natura della realtà, ma solo una condizione della conoscenza. Gaudapada dice: «Né l'irreale né il reale possono avere l'irreale come loro causa; né può il reale avere il reale come sua causa... e come può essere il reale la causa dell'irreale?». Le difficoltà della causalità portarono Gaudapada ad affermare che «nulla è prodotto né da se stesso né da un altro, né alcuna causa è in effetti prodotta, sia esso l'essere o il non-essere o entrambi». La causalità è un'impossibilità. Non si può sostenere né che Dio sia la causa del mondo né che l'esperienza di veglia sia la causa di quella di sogno. I vari oggetti, soggettivi ed oggettivi, le anime individuali e il mondo sono tutti non reali. Essi sembrano essere reali fintanto che il principio di causalità viene accettato. «Ogni cosa viene prodotta dal potere della samvrti (verità relativa), perciò non vi è nulla di eterno; ogni cosa, inoltre, è non-generata e senza nascita essendo inseparabile dal sé, e quindi non può esservi nulla di simile alla distruzione». Generazione e distruzione sono soltanto dei fenomeni, e in realtà non vi è nulla che sia prodotto o distrutto. Per raggiungere il reale, il quale trascende il fenomenico, dobbiamo negare la causalità e le altre relazioni .
È opportuno notare che la distinzione tra soggettivo ed oggettivo non è, nell'Advaita, identica a quella comune. Il mondo mentale è altrettanto oggettivo o non-reale di quello materiale, poiché il solo soggetto o realtà è l'Atman.
Anche la teoria di un reale flusso di idee per Gaudapada non è accettabile. «Quindi, la mente (citta) non ha nascita, né nascono gli oggetti percepiti dalla mente. Coloro che pretendono di ravvisare la nascita di queste cose sono simili a coloro che vedono le orme degli uccelli impresse nell'aria». Se l'intera esperienza è soltanto apparente, qual è la distinzione tra la vera e la falsa percezione? Dal punto di vista dell'assoluto non c'è nessuna differenza. La percezione della corda come corda è altrettanto falsa di quella della corda come serpente. La coscienza degli oggetti presenti nelle esperienze di veglia e di sogno non è un fattore costante. Nello stato di sonno profondo non c'è cognizione di oggetti esterni o interni ma soltanto un'unità dove tutte le cose sembrano immergersi in una massa indifferenziata di coscienza. L' esistenza di questo stato è una chiara evidenza del fatto che la conoscenza, con la sua distinzione tra conoscitore e conosciuto, non è assoluta. I sogni sono reali fintanto che si sogna; le esperienze di veglia lo sono finche non si sogni o non si dorma. Il sonno senza sogni, dal quale si passa negli stati di sogno e veglia, è irreale quanto gli altri stati e tutti dimostrano la loro natura
relativa quando l'individuo si risveglia «dal sonno dell'illusione, che non ha inizio, e realizza il non-nato, il sempre sveglio, il senza sogni, l'Uno senza un secondo».
Un'altra ragione data a sostegno della non-realtà del mondo è che «ciò che non è reale al principio e alla fine dev'essere necessariamente non-reale nella sua durata». In altre parole, ciò che ha inizio e una fine è non-reale. La prova della realtà non è l'oggettività o l'efficienza pratica, ma l'esistenza costante o autoesistenza assoluta. Gli oggetti dell'esperienza di veglia si annullano nel sogno, e viceversa. Gaudapada stabilisce il carattere non-reale del mondo dell'esperienza in base a questi punti: a) per la sua somiglianza con lo stato di sogno; b) per il suo carattere oggettivo o presentativo; c) per la non-intelligibilità delle relazioni che lo organizzano; d) per la sua impermanenza.
Dopo aver ammesso che la relatività è l'onnipervadente energia che governa le cose nel mondo dell'esperienza, egli ipotizza la realtà di un qualcosa che trascende l'esperienza e la relatività. La possibilità del relativo implica la realtà dell'assoluto; se il reale viene negato, con ciò stesso si nega il relativo. Le Upanishad dichiarano che al di là dei tre stati, e quale loro base comune, vi è l'Atman. Solo esso è. Esso è indivisibile poiché se fosse composto di parti si avrebbe la molteplicità. Non ci possono essere differenze o distinzioni nell'Essere, poiché ciò che è differente dall'Essere è non-essere, e il non-essere non è. «Un dato che già esiste non può rinascere e un dato che non è mai esistito non può venire all'esistenza». L'Essere è identico al pensiero poiché se non lo fosse non potrebbe essere assolutamente uno. Il pensiero è la stessa cosa che l'Essere; ma questo pensiero non è il pensiero umano, che ha bisogno di un oggetto. Se cosi fosse ciò implicherebbe relazioni e, quindi, dualismo. Qui pensiero significa pura autoluminosità, che rende possibile ogni conoscenza relativa. «Questa realtà è senza nascita, senza sonno, senza sogni e autorisplendente perché l'Atman è sempre risplendente per sua natura». L'assoluto non dev'essere confuso con lo stato di coscienza indistinta che si ha nel sonno profondo. In quest'ultimo c'è non-consapevolezza, mentre nel Brahman si ha pura consapevolezza . I tre stati di veglia, di sogno e di sonno senza sogni sono le tre modalità in cui l' Atman uno e incondizionato si rivela quando appare limitato dai diversi upadhi (sovrapposizioni) .

La Creazione.

Gaudapada solleva la questione del rapporto tra il supremo principio Atman e il mondo fenomenico. Se siamo dei sinceri ricercatori della verità (paramarthacintakah) e non soltanto dei semplici studiosi della creazione (sristicintakah), potremo constatare che la creazione non esiste affatto. Il reale non può essere soggetto al cambiamento. Se lo fosse, allora « l'immortale diverrebbe mortale». «In nessun modo può darsi che una cosa si tramuti nel suo opposto ». Tutto il divenire è non-reale, valido solo nel mondo empirico. L'Atman, che è realtà una e incondizionata, non conosce altro al di fuori di sé, per cui, in realtà, non esiste la distinzione (nasti bheda kathamcana). Samkara dice: «Gli oggetti sono conosciuti da un soggetto che agisce, non da uno che abbia una semplice esistenza». Come possa sorgere questo adhyasa, o confusione tra il sé e il non-sé, e come possa l'Uno apparire molteplice è inesplicabile, poiché l'indivisibile Atman non può essere realmente diviso, ma che la confusione sia un fatto non può essere negato, e talvolta si sostiene la necessità di cercare una spiegazione del mondo malgrado questo non sia reale. Gaudapada considera le differenti alternative suggerite per spiegare la creazione. «Alcuni considerano la creazione come la manifestazione divina (vibhatt), altri le attribuiscono la stessa natura del sogno o dell'illusione (svapnamaya); altri ancora affermano che la creazione è la volontà del Signore, mentre coloro che considerano il temporale asseriscono che ogni cosa procede dal tempo (kala). Alcuni dicono che la creazione ha come scopo la fruizione (bhoga), mentre altri la ritengono un semplice gioco (krida)». Gaudapada respinge tutti questi punti di vista e dichiara che «essa è la natura inerente all'Essere risplendente (devasyaisa svabhavo yam). Quale desiderio potrebbe avere Colui in cui tutto è compiuto?». Respingendo, perciò, la tesi secondo la quale il mondo è paragonabile ad un sogno o ad un'illusione, Gaudapada sostiene che esso è la manifestazione della natura stessa di Dio, l'espressione del suo potere. In altri passi si rileva anche una concezione realistica del mondo. «L'Atman autorisplendente tramite il potere della sua propria maya (sva- mayaya) appare oggetto. Il sé solo è il supporto della conoscenza degli oggetti; tal è la conclusione del Vedanta su questo argomento». Qui Gaudapada usa la parola maya nel senso di potere prodigioso, la natura stessa dell'Atman o svabhava, «inseparabile dal sempre risplendente che da essa è velato» . Maya è anche il principio cosmico senza inizio che vela la realtà alla vista dell'uomo. L'assoluto, velato dal principio della maya o svabhava, che è l'immanifesta (avyakrtam), è l'Isvara «che emana tutti i centri di coscienza» .
Gli esempi della terra, del ferro e delle scintille di fuoco tratti dalle Upanishad non hanno altro scopo che quello di aiutarci a comprendere l'assoluto. Nel Vedanta posteriore questa posizione viene sviluppata dalla concezione dell'adhyaropapavada, o attribuzione illusoria che deve essere seguita da una ritrattazione. La verità metafisica contenuta in queste asserzioni è che il mondo empirico ha come sostrato l'Atman il quale, in realtà, è non-percezione di qualsiasi dualità (dvaitasyagrahanam). «Il mondo della dualità non è che semplice maya, la non-dualità è la sola realtà». Samkara dice: «L'esperienza molteplice sussiste nell'Atman come il serpente nella corda». Non si deve dire che l'Atman si trasforma nel mondo, ma che dà origine alle cose come una corda dà origine ad un serpente, solo apparentemente. Esso sembra diventare i molti soltanto per mezzo della maya e non per sua natura (na tattvatah). «Non si può dire che questo mondo molteplice sia identico all'Atman, né che in alcun modo sussista indipendentemente, e niente può dirsi differente o identico». Il mondo non è ne identico all' Atman né differente da esso. Quando Gaudapada fissa l' attenzione sulla realtà suprema, egli dichiara che il mondo è solo un sogno o un'illusione, e che le differenze sono solo apparenti.
La parola maya non è usata da Gaudapada in senso restrittivo, ma per indicare: 1) l'inesplicabilità della relazione tra l' Atman e il mondo; 2) la natura o il potere di Isvara; 3) il carattere apparente, simile al sogno, del mondo. […]
Se il mondo è un'oggettivazione della mente (cittadrsyam) sovrapposta all'assoluto Atman, allora lo è anche il jiva. L’ individuazione dell'Atman nella pluralità dei jiva è solo apparente. L'Atman è paragonato allo spazio universale, ed il jiva allo stesso spazio racchiuso in un vaso; quando questo involucro si disintegra, lo spazio limitato (ghatakasa) si immerge in quello universale (maakasa). Le differenze esistono semplicemente in certi accidenti quali la forma, il volume il nome, ma non nello spazio universale in sé. Proprio come non si può dire che lo spazio limitato sia una parte (avayava) o un effetto (vikira) di quello universale, cosi non possiamo dire che il Jiva sia una parte o un effetto dell'Atman. I due sono uno e le differenze sono apparenti, anche se in pratica siamo costretti a considerarli come se fossero distinti.

Etica e religione.

Il bene supremo per l'uomo consiste nello spezzare i legami che lo separano dalla sua autentica realtà. La libertà consiste nella realizzazione dell’Atman presente nell' anima individuale. L'anima liberata «non è mai nata, poiché è al di là della causalità». Colui che realizza la verità, vive nel mondo con un sublime distacco, paragonabile alla perfetta indifferenza della natura inanimata (jadavat), non essendo il vincolato da convenzioni e da regole.
Lo sforzo etico consiste in un progressivo avvicinamento bene supremo. Le distinzioni di bene e di male si riferiscono al mondo dell'esperienza, nel quale gli jiva possiedono senso dell'individualità. Poiché l'avidya è qualcosa che condiziona l'intera personalità dell'uomo, per potersene liberare è necessaria non solo la retta conoscenza ma anche il retto comportamento e la devozione a Dio. La religione ci aiuta nel conseguire il bene supremo; all'anima limitata è permessa la piena libertà di culto, ed essa può immaginarsi l’infinito come meglio preferisce, in quanto ogni forma poggia sull'uno assoluto. La forma religiosa, basandosi sulla distinzione tra l'anima umana e Dio, è relativa ed è adottata in base al suo valore strumentale. Gaudapada accetta il metodo Yoga come mezzo: «Quando la mente, conseguita la conoscenza della verità dell'Atman, non pensa più, cessa di essere mente e, nell'assenza di cose da percepire, rimane in quiete.» Questo stato non deve essere identificato con il sonno, poiché è conoscenza che ha come suo oggetto il Brahman; è oltre la descrizione concettuale, oltre ogni dualità, in un dominio in cui jnana è incentrato sull'Atman. Il metodo Yoga è arduo in quanto implica il controllo della mente (manonigraha), cosi arduo che Gaudapada lo paragona allo sforzo di un individuo che è impegnato a vuotare l'oceano goccia a goccia con un filo d'erba kusa. Tuttavia la mente non deve interrompere gli sforzi fintanto che la beatitudine suprema non sia stata attinta.

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