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Testi del Vedanta, dello Yoga e della tradizione Hindu.

Dal 2001 Visionaire.org è scritto, illustrato, pubblicato da Beatrice Polidori (Udai Nath)

di Maria Vassallo

L’imitazione pittorica secondo il sacro canone

Le immagini cultuali dell’India, che possiamo definire come vere e proprie epifanie dell’Invisibile, costituiscono per lo spettatore-iniziato indiano un “ponte” che collega visibile e invisibile, terrestre e celeste. Allo stesso modo l’arte in sé, in India considerata divina, costituisce per il sailpin, l’artista, una via che conduce al divino. L’artista è soprattutto un uomo dedito alla contemplazione poiché è dalla contemplazione stessa che le opere d’arte sacra provengono e non possono che provenire da essa.

In India la pratica dell’arte sacra non è mai stata dominata esclusivamente da interessi di tipo economico e non ha costituito un vero e proprio commercio. Nell’evenienza in cui l’artista venda occasionalmente le proprie opere, non lo fa per sete di guadagno, ma rimane sempre un uomo libero dalla logica del profitto e dalla forma mentis del mercante.

I manuali indiani sailpa, ossia i trattati inerenti alla “disciplina della forma della realizzazione delle immagini” impongono innanzitutto all’artista di essere una persona di animo nobile. È la sua intera personalità a essere investita: virtù essenziale alla pratica dell’arte è la fede ma egli deve anche possedere le qualità di chi potrebbe definirsi“un uomo buono e saggio”.

L’arte costituisce un rito che noi occidentali definiremmo metafisico o devozionale, al quale l’artista consacra interamente se stesso.

Lontano dal frastuono della vita mondana e libero da ogni altra preoccupazione, con dedizione e buona volontà, lavorando in solitudine, egli compie fedelmente il suo lavoro esclusivamente in vista del bene e della bontà dell’opera da compiere. Scevro da qualsiasi volontà di esibizionismo o compiacimento per la propria abilità, egli non mira al successo e agli onori: e ciò è testimoniato dal fatto che, in India, raramente l’autore appone il proprio nome alle opere da lui realizzate.

Queste ultime non sono mai un’espressione creativa scaturita dal talento artistico, dalla genialità individuale, dalla personalità o dalle emozioni dell’uomo-artista. Egli le esegue esclusivamente ad maiorem gloriam Dei ma, al tempo stesso, trae piacere dal proprio operato poiché ama il suo lavoro. Insegna la Bhagavadgita: «Chi si trova ad  aver piacere nel proprio lavoro raggiunge la perfezione. L’individuo raggiunge la perfezione rendendo omaggio, mediante la sua opera, a Colui dal quale promanano lo sviluppo degli esseri e tutto questo universo».  

L’arte, vocazione naturale tipicamente ereditaria (svadharma) dell’artista, è intrinseca alla sua stessa natura e la tradizione artistica dei  lavori manuali, come qualsiasi altra occupazione, nella patria delle caste, si tramanda di regola da padre in figlio.

L’artigiano tradizionale indiano è rispettoso del dharma (termine complesso che indica la “giustizia” ma anche l’ordine socio-economico e la cui radice dhr esprime essenzialmente l’idea di stabilità) e lavorando come artista realizza ciò che la sua natura (svabhavatas) gli “impone” di fare (svakarman). Ciò significa «esplicare i propri compiti secondo la propria naturale predisposizione», in conformità a  quello che potrebbe definirsi l’ideale platonico di Giustizia.

A tal proposito, il testo Maunavadharmasastra recita: «È meglio ilproprio dovere pur senza alcuna buona qualità che il dovere altrui ben fatto» e, in modo quasi identico, la Bhagavadgita così si esprime: «Migliore è il proprio dovere [inerente alla propria natura], per quanto imperfettamente incompiuto, che il dovere di un altro ben praticato. Colui che compie il proprio dovere inerente alla propria natura non commette errore».

L’arte esercitata dall’artista è una scienza, una padronanza da acquisire, un procedimento razionale che passa attraverso uno speciale e profondo addestramento e uno studio specifico. Oltre a un’innata grande maestria e abilità artistica, necessitano tecnica e metodo da apprendere in bottega. Egli deve anche possedere la conoscenza dei Testi Sacri unitamente a nozioni di architettura, astronomia, astrologia e fisiognomica.

Essenziale per una preparazione completa è soprattutto la perfetta conoscenza di tutte le regole dello sailpa (“disciplina della forma della realizzazione delle immagini”), impartitegli oralmente secondo l’antica tradizione della trasmissione (gurusisyaparampara), fedele e conservatrice, da maestro (guru) a discepolo. In tal modo, in scuole rigidamente chiuse presso le quali anche la funzione di maestro è ereditaria all’interno della discendenza dell’insegnante, di generazione in generazione, si formano artisti per i quali l’arte è un corpo di conoscenze tramandate di origine sovrumana.

In un equilibrio polare di metafisico e fisico, l’opera d’arte sacra fonde elementi formali-intelligibili (namavat) e materiali-sensibili (rupavat). Essa dipende da entrambe le due nature dell’artista la divina e l’umana.  

L’arte è, dunque, un rigoroso procedimento pratico e razionale guidato dalla Conoscenza, nel corso del quale l’operazione intellettuale di tipo contemplativo (dhyana) è antecedente all’esecuzione manuale e fisica di tipo operativo (karman). Prima di iniziare la sua opera, infatti, l’artista, attenendosi alle istruzioni della sacra tradizione nella quale è iniziato, si purifica fisicamente e spiritualmente secondo una prescrizione canonica che gli impone di compiere dei riti e sottoporsi a lunghi digiuni e meditazioni, unitamente alla pratica della recitazione di mantra.  

Il fine di tali pratiche, che ne avvicinano la figura a quella dello yogin (colui che pratica lo yoga), è quello di evocare dentro di sé l’immagine del soggetto da realizzare e, fattala emergere, compiere una completa identificazione con essa. «È necessario – come scrive Platone – che si renda simile, secondo la sua antica natura, il contemplante al contemplato», in quanto non è possibile trasmettere quello che non si possiede o non si conosce “in se stesso” e “come realmente sia”.

L’artefice deve, dunque, prendere conoscenza della forma da rappresentare e identificarvisi fin nei dettagli: colui che ha la visione e la visione stessa diventano Uno ed egli raggiunge il samadhi (cfr. il greco synthesis), cioè l’Unione del Divino diviso.

Il pittore si dedica alla meditazione in quanto unico strumento che possa consentire di conoscere il vero carattere di un’immagine: indotta la mente a uno stato di quiete assoluta, egli vede l’immagine intelligibile con “l’occhio della mente” o “l’occhio del cuore”, ciò che Platone definisce «l’occhio dell’anima», tratto e guidato in alto, dal metodo dialettico, verso il principio stesso. In altre parole gli “occhi dello spirito” colgono la “forma interiore” e l’artista visualizza dentro di sé la forma visibile dell’entità di ciò che dovrà pittoricamente realizzare.  

Non è, quindi, possibile cogliere il modello (exemplar) sperimentalmente, ossia mediante le facoltà empiriche o l’esperienza di un’osservazione diretta, ma soltanto “intellettualmente”. È nell’intelletto dell’artista, infatti, che sussiste l’idea in forma imitabile, la quale non è, però, prodotta dall’invenzione umana, ma costituisce una vera e propria rivelazione. Talvolta tali immagini si manifestano in sogno durante il sonno. In entrambe le circostanze, l’artista si mette manualmente all’opera utilizzando come modello queste “visioni”.

Svuotata la mente da ogni altro contenuto e il cuore da ogni interesse estraneo, soltanto la concentrazione fisica e mentale può far sì che egli riesca a dominare il suo spirito e richiamare alla mente fedelmente e con accuratezza ogni particolare di ciò che deve essere raffigurato. Questo tipo di operazione si rivela alquanto difficile a causa della labile natura di siffatte manifestazioni, ma è assolutamente essenziale: deve esservi una totale concordanza e nessun dettaglio può essere trascurato affinché la riproduzione sia completa e perfetta.  

L’artista deve trasferire sulla parete “esattamente” ciò che ha visto nella contemplazione. Soltanto in questo modo, il dipinto della sacra immagine potrà racchiudere in sé le qualità peculiari della pura visione interiore dalla quale si è originato, catturando l’essenza di ciò che l’artista ha visualizzato mentalmente grazie alla concentrazione.

L’immagine, o forma mentale dell’artefatto da realizzare, concepita prima di produrre l’oggetto, precede, dunque, temporalmente e logicamente il prodotto finito costituendone la “causa formale”. Secondo la dottrina platonica, è proprio da quest’ultima che la bellezza di un’opera d’arte dipende: «quando l’artefice, guardando sempre a quello che è nello stesso modo e giovandosi di così fatto modello,esprime la forma e la virtù di qualche opera, questi di necessità esce bella: non bella, invece, se guarda a quel che è nato, giovandosi d’un modello generato». Un’opera iconografica è “bella” se esprime una“adeguatezza reale” rispetto all’essere “tale” (oi`on ), alla forma (i;de va ) e alla potenza (...)  dell’archetipo divino che essa simboleggia e che, al tempo stesso, ne costituisce il fondamento. Ogni bellezza è tale non per il colore o l’aspetto, ma perché ha qualcosa in comune con un “modello eterno” cui essa partecipa (mete vcei ).

Come spiega A. K. Coomaraswamy, tra i più profondi studiosi di arte indiana del novecento, in sanscrito il termine alamkrta, che originariamente esprimeva il concetto di “reso adeguato”, finì con il significare “abbellito” e, inoltre, il termine saubha, che vuol dire “bello”, implica l’idea di Bene.

L’artista indiano non realizza, pertanto, opere ispirate dal proprio gusto individuale o sentimento estetico: la bellezza artistica è “oggettiva”, vale a dire in sé intrinseca all’oggetto. Essa costituisce il principio dell’arte e dipende dalla “perfezione” dell’opera nel suo genere, ossia dalla sua “correttezza” (recta ratio).

Un’immagine pittorica eseguita “secondo Verità” costituisce la manifestazione fisico-spaziale, rispecchiando quella percepita interiormente dall’artista. Per realizzarla, l’artista non può, dunque, che imitare la forma immaginata.

Scrive Eliade: «sul piano etimologico “immaginazione” è solidale con imago, “rappresentazione, imitazione” e con imitor, “imitare, riprodurre”. (…) L’immaginazione imita dei modelli esemplari – le immagini – li riproduce, li riattualizza, li ripete incessantemente».

Secondo la teoria tradizionale indiana dell’arte, ogni operazione artistica è in fondo un’imitazione di ciò che la divinità ha fatto in principio. Tutte le arti sono indubbiamente mimetiche: è mediante l’imitazione che esse esprimono i temi che le informano.

Anche per Platone la pittura è imitazione (mi vmhsis) e il pittore deve realizzare immagini che siano somiglianti agli oggetti, così come i nomi appropriati alle cose sono a esse “somiglianti” e sono di esse “immagini”.

«L’imitazione o “rap-presentazione” di un modello”, scrive Coomaraswamy, “comporta certo una somiglianza (ovmoi va , similitudo, sanscr. sadrsaya), ma non quel che noi intendiamo con “verosimiglianza” . Tradizionalmente per “immagine somigliante” non s’intende una copia, ma un’immagine congenere (suggenhv) ed “eguale” (i vso ) al modello; in altri termini, un simbolo, naturale e “ad-eguato”, del suo referente, un’imitazione fatta bene e secondo verità”. Occorre, però, che esista con l’archetipo un’uguaglianza circa il “quanto”(tosou`ton , o vson ) e il “quale” (tosou`ton , oi von ) – ossia un’uguaglianza di forma (ide va ) e di forza (duvnami")».

Se in sanscrito il concetto di “imitazione” è espresso dal termine “anukarana”, che indica proprio il “fare conformemente a”, il già citato vocabolo “sadrsaya” designa una somiglianza da intendere come “adeguatezza reale”.

La vera e propria ritrattistica è, infatti, di per sé biasimata dai testi sailpa: le immagini degli uomini non conducono al cielo né operano il bene. Nella cultura dell’India persino i soggetti terreni, vale a dire le effigie dei defunti o le immagini delle persone in vita, non sono realizzate secondo la reale fisionomia degli individui, ma in virtù di una loro transustanziazione e riflettono più una tipologia archetipica (nama)che un’effettiva rassomiglianza fisica, assolutamente illusoria.

Nell’arte figurativa, “a immagine e somiglianza” della visione interiore, la somiglianza concerne, dunque, soltanto la forma. Sono i princìpi universali, i prototipi celesti, a dover essere imitati e riprodotti nelle opere d’arte umane e, data l’invisibilità del modello, formale, intelligibile e non percepibile, non si potrà, quindi, esigere una somiglianza che sia “visibile”.

Tale somiglianza formale delle cose sensibili a prototipi spirituali si fonda sul principio che qualsiasi forma umana (sailpa) è creata a imitazione (anukrti) delle forme divine (daivyani sailpani).

Anche per Platone, un artista deve basarsi sugli originali divini. La presenza dell’«imitatore che non si intende per nulla di ciò che è, ma di ciò che appare» e imita qualsiasi cosa senza distinzione, non è per lui necessaria, anzi chi è capace di ogni imitazione deve essere addirittura allontanato per evitare che l’imitazione di modelli disdicevoli «li porti al bel guadagno di essere ciò che imitano».

È questo il rischio di ciò che egli definisce “arte dell’apparenza”, distinguendo quest’ultima da un’altra specie dell’arte del fare immagini, l’“arte del rappresentare”, cioè del realizzare “rappresentazioni”.

La validità di un’immagine imitata non risiede, dunque, nell’essere realistica né tanto meno “tale e quale” il modello perché si tratterebbe di una somiglianza assoluta, di un’uguaglianza, un’identità.

L’immagine deve possedere qualcosa in comune con il raffigurato, ma il suo fondamento è il rap-portarsi, il portarsi di uno stato di cose a un altro stato di cose: essa è simile e al tempo stesso dissimile.

La vera imitazione, basata sulla somiglianza, fondamento della pittura, necessita di un’identità nella differenza e di una differenza nell’indifferenza. Questo non-senso è la condizione stessa del senso dell’immagine somigliante.

Dovendo imitare un archetipo invisibile, privo di un aspetto che possa essere imitato visibilmente, l’imitazione, secondo Platone, deve pertanto fondarsi su «qualche parentela» (sugge vneia ) che “rammenti” efficacemente la causa formale dell’oggetto di cui si fa interprete.

«I prototipi celesti (nama), infatti, data la loro perfetta semplicità e invisibilità non possono essere rappresentati come “sono”. Per essere manifestati in una rappresentazione sotto forma materiale e sensibile (rupa) che sia non una “figura” (rupam) ma una “forma propria” (svarupam) ossia realmente “somigliante” alla natura dell’archetipo, necessitano di simboli adeguati che li imitino. Questi ultimi costituiscono tutto ciò che è possibile comunicare del Principio, che non ha sembianza alcuna».

L’immagine sacra indiana è essa stessa un simbolo: non è solo un oggetto perché intelligibile ma, al tempo stesso, non è neanche il prototipo, in quanto sensibile.

Scrive Platone: «questa cosa che ora io vedo tende a essere come un’altra, e precisamente come uno di quegli esseri che esistono per se stessi, e tuttavia ne difetta, e non può essere come quello, e anzi gli rimane inferiore».

È esclusivamente al modello eterno che la venerazione tributata alle immagini artistiche dovrà rendere onore riferendo, dunque, soltanto al prototipo che vi è rappresentato, dal quale l’immagine trae origine, il culto di ciò che gli è stato consacrato.  

La critica al realismo della ritrattistica delle forme “inventate” dall’uomo-artista è fondata soprattutto sul timore che esso possa indurre a considerare il Dio solo “un uomo raffigurato”, oppure provocare la venerazione idolatrica dell’opera in sé, equivoco che essa stessa non sia solo un “sostegno per la contemplazione”, ma l’oggetto stesso della contemplazione.

La questione è da ricondursi, inoltre, al concetto che il “Brahman provvisto di sembianze”, modalità di manifestazione del sacro, pur se strumento essenziale per la conoscenza del Brahman impersonale, è una soglia da oltrepassare. La Maitry Upanishad spiega che «Agni, (…) Brahma, Rudra, Visnu (…) sono le forme principali del supremo, immortale, incorporeo brahman. (…) Si mediti pure su quelle che sono le migliori forme <del Brahman>. Indi le si respinga, poiché esse sono<null’altro che> mezzi per procedere in mondi sempre più elevati (…) ».

Il Brahman non è ciò che gli uomini venerano quaggiù, pertanto chi ha conseguito la Gnosi può fare a meno delle effigie del dio. L’immagine non mostra più alcuna utilità e spesso alcune effigie cultuali allestite ritualmente, assolto il loro compito, sono distrutte e dissolte nelle acque dei fiumi. L’immagine deve essere allora intesa e adoperata quale mero supporto per la contemplazione e la “reminiscenza” ossia un coadiuvante, un punto d’appoggio per la meditazione.

Se non è storicamente corretto affermare che in India non sia mai stata rappresentata alcuna immagine antropomorfica della divinità prima dell’era cristiana (vi sono eccezioni risalenti sino al III millennio a.C.), è invece fuor di dubbio la negazione dell’immagine cultuale alle origini della civiltà indiana.

Come scrive Coomaraswamy, «l’arte indiana più antica è essenzialmente “aniconica”, impiega cioè quali sostegni per la contemplazione solo simboli geometrici, vegetali o teriomorfi, proprio come l’arte paleocristiana».

È a partire dal periodo storico che corrisponde ai primi secoli della nostra era cristiana che compaiono le effigie delle grandi divinità dell’induismo e inizia il fiorire dell’iconografia sacra. Nel III-V secolo d.C., epoca denominata “gupta” dall’omonima dinastia che la caratterizzò, l’iconografia indiana si diffonde. È il suo momento di massimo splendore, quello che sarà definito il “periodo classico” dell’arte indiana (III-VI secolo d.C.), periodo in cui i più importanti dipinti sacri murali sono quelli buddhisti dei templi nelle caverne di Ajantha (VI secolo d.C.).  

Nel medesimo periodo, le arti erano strettamente associate tra loro in un unico concetto di opera d’arte: sailpa (architettura, scultura, pittura), definibile “disciplina della forma della realizzazione delle immagini”. Il sailpa si ricollega all’Atharva Veda, il quale si occupa della magia, delle attrattive e vicende di questo mondo.  

L’immensa letteratura sailpa, che costituisce un vero e proprio statuto della forza sacra dell’immagine, attesta la convinzione della Prasana Upanishad (appartenente al ciclo dell’Atharva Veda) e cioè che spirituale e materia si armonizzano rendendo l’invisibile percepibile attraverso il visibile.  

Il sailpin, conscio che il valore dell’arte risiede in quello che essa evoca, trasferisce in pittura ciò che ha visto nella contemplazione e lo fa rispettando una “norma” (ratio), ossia attenendosi scrupolosamente a particolari “canoni” convenzionali. Eseguendo in ogni dettaglio quanto è stato prescritto ed escludendo quanto non lo è stato, egli trova nel “canone” un sostegno all’atto contemplativo nel quale visualizzerà una forma imitabile.  

Al pittore è, dunque, proibita l’immaginazione creativa in quanto egli deve attenersi a un rigidissimo canone iconografico che inflessibilmente preclude qualsiasi individualismo nella scelta dei particolari, così come qualsiasi intervento arbitrario sulla forma o preferenza sulla selezione cromatica. Ciò può apparire certo limitativo, ma non si traduce affatto in un’obbligata riproduzione meccanica di moduli prefissati. Sebbene prendano le mosse da modelli immutabili per antonomasia e dalla rappresentazione di “prototipi”, in India gli artisti hanno saputo creare forme espressive sempre nuove e la sorprendente originalità delle splendide opere d’arte della tradizione indiana ne è una vivida testimonianza.  

L’esecuzione dell’arte indiana può, tuttavia, essere definita assolutamente “impersonale” in quanto rigorosamente legata al rispetto di un corpus di “regole” enunciate nei testi.  

Dalla preparazione dei singoli colori e della superficie da dipingere alla composizione delle forme e l’uso degli elementi figurativi dell’immagine cultuale, tutto è infatti decretato sulla base di precetti prestabiliti e accreditati dalla tradizione. Tali precetti, sebbene esistano comprensibili varianti riscontrabili mutando tempi e luoghi, sono considerati pressoché inalterabili.

Le “regole artistiche” sono desumibili sia dai modelli figurativi che le generazioni passate di artisti hanno lasciato, come rappresentazioni tipiche e vincolanti dell’arte sacra, sia dai già citati testi sailpa.

In questi ultimi figurano le pratima, termine che significa “ciò che deriva dal prototipo” e che indica le icone ma anche gli specifici capitoli del testo inerenti alle immagini cultuali. I trattati tecnici (sailpa-sastra) di tali capitoli costituiscono un immenso materiale informativo per reperire dati su come l’opera artistica debba essere eseguita.

Essi codificano i canoni in cui la norma è suddivisa, ossia le prescrizioni, definite nei dettagli, alle quali l’artista deve attenersi. Si tratta delle caratteristiche iconografiche prescritte dalla tradizione, delle metodologie, delle proporzioni, delle misure e delle istruzioni da seguire, unitamente ai criteri di tipo estetico che devono assunti dall’artefice per dare uno stile “appropriato” al soggetto. Il valore di significato di tali parametri iconografici, sui quali il pittore medita a lungo,precede, ovviamente, l’interesse puramente decorativo e stilistico.

Ad esempio i cosiddetti “ornamenti (bhusanam) della pittura” quali il contorno, la rappresentazione del chiaroscuro, il colore e le sue tonalità, non hanno uno scopo meramente estetico, non sono un’elaborazione superflua dell’arte: tali forme tecniche, considerate rigorosamente indispensabili, sono al tempo stesso forme espressive metaforiche, immagini di una verità spirituale. Ad esempio, l’aura dorata, che avvolge alcuni personaggi divini e sembra irradiare dalle loro figure, così come lo sfondo aureo di in dipinto, per il fulgore e la radiosità del loro puro splendore, la cui brillantezza è simile all’oro, simboleggiano la gloria e la spiritualità.

L’artista indiano ripone grande importanza anche nel tracciato dell’opera. Il diagramma di composizione, ossia il piano geometrico-matematico della configurazione essenziale dell’immagine da eseguire, svolge un ruolo fondamentale.

Le icone indiane sono caratterizzate dal fatto che le varie parti del dipinto non sembrano avere apparentemente alcun nesso organico tra loro. Il dipinto è tuttavia costruito intorno a un “centro ideale” che assicura l’unità e l’integrità compositiva nell’apparente disorganicità.  

Al centro dell’immagine vi è sempre un “punto vitale”, che non corrisponde al centro geometrico ed è il diagramma di composizione ad assicurare la perfetta integrazione di ogni elemento in un insieme organizzato attorno a tale “punto”.

Anche la pittura murale dell’arte indiana nella sua forma buddhista, come quella dei templi nelle caverne di Ajantha si presenta“disorganica” in quanto apparentemente priva di struttura, simmetria, “punto di fuga” e direzione. Nelle immagini del Buddha, la predominanza di linee orizzontali e verticali dell’impianto lineare è finalizzata alla trasmissione nello spettatore di un sentimento di intima quiete, serenità e pace interiore (santarasa).

«La struttura geometrica del mandala e degli yantra nel senso più stretto, che rappresentano lo specchio grafico di entità metafisiche, è rigorosamente fissata, poiché deve esprimere l’essenza di queste entità ed è quindi priva di ogni soggettività decorativa: la creatività individuale infatti ne distruggerebbe il carattere di accurata adesione ai canoni prestabiliti e snaturerebbe il disegno, trasformandolo in uno scarabocchio senza significato, anche se piacevole all’occhio», spiega Zimmer aggiungendo che, per ciò che concerne l’immagine cultuale figurativa (pratima), anch’essa simbolo visuale, «il termine prati-ma significa letteralmente “contro-misurazione” e indica ciò che è stato misurato e adattato sull’originale. L’effigie sacra è perciò la copia esatta di un’apparizione e, in quanto tale, è fedele, incondizionata, prestabilita e non arbitraria».

Nei trattati canonici, la tradizione, entro certi limiti variabili, prescrive, sin nel più piccolo particolare secondario e al di là di ogni arbitrarietà, ogni dettaglio considerato importante e significativo: la posizione che il personaggio occupa, la sua postura, gli abiti, la forma delle membra, le misure della struttura corporea, le peculiari caratteristiche fisiche, l’espressione facciale e persino la forma degli occhi.

Il modo in cui sono disegnati i tratti del viso, ad esempio, si rivela importante in quanto può determinare l’effetto per il quale gli occhi del soggetto dipinto sembrano guardare lo spettatore ovunque egli si sposti, “comunicando” l’onniveggenza del raffigurato.  

Le caratteristiche fisiognomiche (laksana), gli attributi (abharana) e i canoni di proporzione delle figure sono prestabiliti. L’artista li utilizza anche a discapito della verosimiglianza e naturalezza della scena raffigurata, nella quale, inoltre, è ravvisabile la deformazione delle cose. Essi convengono peculiarmente a seconda dei tipi iconografici.

Quelli utilizzati per le divinità, che differiscono rigorosamente da quelli propri agli uomini, sono desumibili dai già citati testi sailpa, ma anche dalla tradizione letteraria dei miti, da fonti epiche, poetiche e drammatiche, in cui è fissata una volta per tutte la descrizione di come quel dio si manifesti.

È possibile, ad esempio, trovare nel capitolo Balakanda del poema Ramayana, attribuito a Valmiki, una descrizione fisica di Rama, avatara di Visnu, così notevolmente accurata da soffermarsi persino sulle sue poderose mascelle. L’Agnipurana si presenta copioso di dati minuziosi sugli emblemi e i gesti da raffigurare per la riproduzione di ciascuna delle differenti apparizioni di Visnu. Questo testo enumera le varie disposizioni degli attributi tenuti nelle mani del dio e appropriati a ogni sua differente personificazione nell’iconografia delle sue diverse immagini cultuali. Esiste anche un’antica lista di particolarità iconografiche del Buddha, il quale possiede trentadue caratteristiche principali o maggiori e ottanta tratti specifici secondari o minori, così come molte descrizioni dell’aspetto di tantissime altre divinità.

Così l’artista desume quali siano gli abharana ed i laksana caratterizzanti, fissati per ogni singola forma divina, ossia gli ornamenti-attributi e i segni appropriati che esprimono la natura di quell’aspetto particolare del dio nella sfera fisica.

Le immagini prodotte, al fine di una loro correttezza formale, attraverso gli aspetti ed i tratti caratteristici, devono essere “conformi” alla configurazione ornamentale prescritta.

A differenza della divinità senza nome e senza forma, nirguna, incondizionata e dunque non-raffigurabile e non-qualificata, il Dio saguna, manifestazione personificata raffigurabile e qualificata, è essenzialmente dotato di “ornamenti” e la sua caratterizzazione è stereotipa. Privandola di tali elementi “formali”, assolutamente basilari, o alterando il repertorio tradizionale di segni simbolici, la sua raffigurazione risulterebbe incompleta.

Le armi o gli oggetti propri di una divinità ne simboleggiano iconograficamente il modus operandi e la sua stessa energia e, dunque, si rivelano fondamentali.

La Mazza, il Disco, la Spada e l’Arco con Faretra e Frecce sono alcune delle caratteristiche di Visnu. L’Arco e la Spada fanno parte anche dell’equipaggiamento di Rama.

La Spada, la Lancia e la Freccia (saara) sono simboli della Folgore archetipica; il Fulmine, la Saetta, la Lancia adamantina (vajra) costituiscono alcune delle numerose raffigurazioni dell’Asse del Mondo, evocanti il ruolo del Principio immutabile nei confronti della manifestazione universale.

I simboli che rappresentavano il Buddha nell’arte più antica erano quelli delle Orme, il Trono di Diamante, la Ruota del Mondo (chakra) e l’Albero sacro Asavattha (Pippal, Ficus Religiosa). Anch’essi sono legati all’idea di inalterabilità e immutabilità dell’Asse del Mondo, descritta da Platone come un asse luminoso di diamante. In seguito il Buddha cominciò a essere raffigurato antropomorficamente, in forma monastica o, più raramente, regale. Nell’iconografia del Mahayana i tipi regali del Buddha portano la Corona e tengono in mano la caratteristica Ciotola per la questua. Essi rappresentano il Cakravartin, il Buddha Re del Mondo che, spiega Guénon, «letteralmente è “colui che fa girare la ruota”, colui, cioè che, posto al centro di tutte le cose, ne dirige il movimento senza parteciparvi egli stesso». Nelle raffigurazioni in forma monastica, egli è invece caratterizzato dalla presenza dell’Aureola, simbolo di spiritualità, che ne circonda il capo o dal Fiore di Loto che ne sostiene la figura.

Il Loto è anche uno degli attributi di Visnu. Brahma, la dea della fortuna Lakshmi, il Jina e i santi del jainismo sono tutti iconograficamente rappresentati su un Fiore di Loto e il Buddha descrive i brahmana (gli appartenenti alla casta sacerdotale) paragonandoli all’acqua su un petalo di Loto.

Nella tradizione indiana e asiatica esso esprime simbolicamente l’idea di manifestazione, di processione cosmica e di “Mondo”. La“Terra” è, infatti, concepita come stabile sostegno che giace sulla superficie dell’Oceano primordiale delle Acque illimitate del non-manifestato ossia di tutte le possibilità dell’esistenza: cosmiche e di manifestazione. Il Loto è l’immagine di ogni estensione spaziale ed è definito dalla Maitry Upanishad come «l’etereo spazio: i punti cardinali e le direzioni intermedie sono disposte come suoi petali».

Il sostegno del Loto è anche raffigurato come uno stelo identico all’Axis Mundi, Asse dell’Universo che sostiene e separa il Cielo e la Terra e ha lo stesso significato di “Centro del Mondo”, ossia dell’aristotelico motore immobile.

L’iconografia sacra indiana, Verità rappresentata more figurali, dunque non è che un mosaico di simboli pittorici pregni di significato che dischiudono il mistero ontologico della rete di relazioni che unisce tutti gli ordini di realtà nel loro elemento comune: il divino.

Tali simboli non nascono dall’immaginazione individuale dell’artista, ma appartengono al patrimonio spirituale dell’India e, più in generale, a un inalterabile linguaggio simbolico universale della Tradizione unanime della Philosophia Perennis et Universalis, sapere iniziatico e segreto. Questo linguaggio di matrice metafisica è universalmente intelligibile: variamente ipostatizzato nei miti, nelle religioni e nelle filosofie, è comune, tanto all’Asia, quanto all’Europa o ai contesti islamici.


Maria Vassallo
http://www.unipa.it/dicem/?pagina=pubblicazioni

 

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